martedì 10 novembre 2009

The Blue Brothers

Oggi sono vestito di nero.
Ed è strano, ma sarà perchè sono triste.
Il blu non posso indossarlo
oggi
come tutti i santi giorni.
Perchè oggi mio fratello non c'è.
E senza mio fratello il blu che senso ha?
Senza il riflesso paterno dalla volta
anche il mare è trasparente, insensato.
L'orologio però
è rimasto un po' indietro:
sì, proprio quello a corda
da capofamiglia.
Me lo ricordo sai, che credi?
Insieme al velluto
blu e
a quel fumo così familiare:
sigarette Lido e braciere.
E poi le comparse improvvise
mentre mugugnavo a letto malato,
proprio come oggi,
prima che i ruoli si invertissero.
E' la ruota? 127 Fiat, 500 lire
italiane
e poi catenella e bocca aperta.
Dimmi, è quella Cristo di ruota?
Sì, sì Gianni,
è proprio lei.
Ma non è ancora sgonfia
se domani mi vestirò di blu.

sabato 10 ottobre 2009

Se rinuncio non significa che ho perso

La stanza è stretta, piccola prigione coperta da buoni propositi. I sogni stranamente non riescono ad oltrepassare quella fottuta fessura alta tre dita che vuol concedere alla cripta una parvenza di decoro e onestà. L'onestà, sì, ne ho sentito parlare un giorno, tempo fa. Non ricordo bene cosa significa ma penso si tratti di un aspetto che mi caratterizzerà per un altro bel pezzo. Non per sempre, credo. E' come una missione senza alcun fine nè speranza. Un tizio parlò di Qualità, se non ricordo male. Sì, sì, la Qualità, matrice infondata. Io sono quella, e la odio. Strane cazzate della giovane età. E armi deboli per la sfida che mi attende. Settimana prossima. Incontro ravvicinato con la piccola. La bestiolina. L'amore, la nazione infantile, la libertà. Non credo di potercela fare perchè in un certo senso la amo. Come l'acquavite ama le labbra rosse della puttana che la ingurgita con classe prima di smaltirla durante l'amplesso, per sempre. Proverò a parlare, a capire, a scoprire. La guarderò negli occhi e afferrerò per le spalle, scuotendola affinchè mi dica tutta la verità. Come non ha mai fatto. Perchè io la desidero e senza di me lei non vedrà il domani. Senza di me lei è perduta. Davanti alla mia abilità di oratore e ai miei occhi infuocati si scioglierà per farsi riplasmare di carezze. Stavolta niente scherzi. Sono preparato. Non posso fallire.
BANG!
BANG!
BANG!
Colpito alle spalle, di nuovo. Si avvicina. Si accerta che sono in fin di vita. E mi sfiora con le labbra l'orecchio sinistro, giovane e bellissima. Come una sirena reimpossessatasi del vascello. Mi sorride e va via. Via. Siamo alle solite. Neanche il tempo di controllare se esalo l'ultimo benedetto respiro. Ma è fatta così. Dalla notte dei tempi. Non si fida. E' sempre stata la mia musa imprevedibile.

domenica 4 ottobre 2009

Columbus

I feel like a cave dweller

soaked with frost

you were right

the sun sets in the east.

domenica 19 luglio 2009

Prosecuzione

Sputò il terriccio con indolenza. Il sapore era molto simile a quello della terra -l'aveva già assaggiato un paio di volte in vita sua e non era di certo piacevole. Per di più ora non poteva sciacquarsi subito mucose e narici. Quella non era la Terra, ricordò.
Gli tornò alla mente, sfocato, il lungo volo, il panorama oscuro e nebuloso, poi la nebbia vera e propria. Era positiva, la nebbia. Voleva dire presenza di aria e acqua. Le piantine in capsula spedite lì anni prima dalla Commissione terrestre dovevano aver svolto un egregio lavoro: respirava a fatica, ma senza bolla artificiale. Il casco infatti stava lì, a una decina di metri, col visore principale spaccato a metà. Era di certo atterrato di zucca, dopo che il colibrì meccanico lo aveva sganciato. Dannato androide volatile! Riprodotto alla perfezione: dal battito d'ali velocissimo e preciso fino a quella maledetta pavida voglia di tagliare la corda. L'aveva mollato ad alta quota. Per paura. O anche l'atterraggio di fortuna faceva parte del programma?
Tutto sommato la tuta di superchewinggum e il casco soffiato avevano ammortizzato bene l'impatto. Dolore a spalla e ginocchio, emicrania, ma il resto del micro-check-up era ok. Si guardò intorno. Terra verdastra e un'altura ramata in lontananza. Prese i resti del casco e si incamminò pesantemente. Aveva superato solo la prima prova: lo sbarco. Non era di sicuro un colono modello ed era per questo che lo avevano scelto. Una cavia. Sentimentale. Perciò (e per il casino che aveva creato in madre-pianeta) avevano spedito proprio lui sul'astro da testare. Se resistono i più fragili, poi per gli altri è una passeggiata.
Il discorso dei capoccioni non faceva una grinza, ma non doveva pensarci, pensò, arrivando sulla montagnola. Guardò al di là, in basso.
Una distesa deserta con al centro un ridicolo boschetto di alberelli, arbusti e tappeto d'alghe. Non era lontanissimo, ma almeno mezza giornata di marcia ci voleva. E lui era ancora intontito e troppo stanco per arrivarci nel freddo notturno. Doveva riposare. Si tolse la tuta, mettendo da parte il suo borsello di effetti personali. Strofinò forte due pezzi di visore scheggiati e dopo poco riuscì a creare un piccolo fuoco di gomma argentea. Si addormentò polveroso e senza sogni.
Svegliandosi di soprassalto, afferrò l'astuccio, gettò a terra la piccola pila di libri elettrici, le sigarette all'ossigeno, la cartuccia antimicotica e finalmente la trovò.
La foto delle sue donne che ora lo guardavano ridendo.
La piccola, in braccio alla mamma, aveva la bocca aperta proprio come quando chiamava il suo papà: pa-po.
Ismolda, invece, la fissava sorridendo, con il sopracciglio alto e gli occhioni semichiusi che lasciavano trasparire una scintilla di tristezza. Lei sapeva che e perchè lo avevano scelto. E, come sempre, era poco brava a spronarlo nell'accettare le avversità o nel rimediare ai danni. Era insopportabile ma sincera: anche da quella distanza provava a rendergli ancora più difficile la convivenza con questa situazione -se solo fosse stato possibile. Le sue ultime parole, impassibili, erano state: "Se non torni entro due mesi vuol dire che sei morto. E se muori sai bene cosa faremo: ci lasceremo morire anche noi. Ti è chiaro questo? Visto in che situazione ti sei cacciato?". Tutta d'un pezzo se l'era scelta. In apparenza. La realtà era diversa. E lui lo sapeva: l'aria di rimprovero non era veritiera. Le guance di Ismolda erano troppo rosee; era agitata, triste e stava per commuoversi. Allora quel giorno e in quel preciso istante le aveva voltato le spalle per evitare il suo labbro tremolante di pianto ed era uscito. Sapeva che per sempre. Non ce l'avrebbe fatta a tornare. Questa non era una di quelle cacce al tesoro intergalattiche di cui parlava l'olovisione e in cui, dopo aver punzonato alcuni pianeti, ti lasciano una navicella nascosta in un cratere con cui tornare a casa. Lui aveva perso al Big Bad Jack. Così era diventato una guida da avanscoperta. Un pioniere forzato. Una pedina di un gioco più grande di lui, ancor più di quello in cui aveva perso la libertà. E d'azzardo qui c'era solo lo svolgimento, perchè il risultato già lo conoscevano tutti. Lui per primo.
Ciononostante aveva incominciato ad avanzare, come un sonnambulo senza letto, verso la pineta, sotto il calore di una stella abbastanza alta. Si mise a fischiettare un motivetto di un cartello animato -che incrociava spesso vicino al suo ufficio- per rimuovere il pensiero di Rory e Ismolda in lacrime. "Non pensare allo spazio-ti riduce come uno straccio, cerca un canovaccio-per goderti un massaggio... fìlu-filù-filà". Una delle solite canzoncine monocordi per incentivare le carriere letterarie. Non funzionavano. Ma erano molto orecchiabili rispetto alle percussioni ultrasottili di ultima generazione. Comunque, pensando a quei poveracci dei letterati incalliti, trovò la forza di andare avanti un altro po'. Doveva per lo meno perlustrare qualche oasi prima di cedere, per non diventare ancora di più lo zimbello del suo quartiere, mettendo in ulteriore difficoltà le sue care già a pezzi. Doveva sforzarsi o in via "Divolta750" gli avrebbero dedicato una statua derisoria di salpepato, pratica storicamente riservata solo alle massime figure della cultura, ormai, purtroppo per i burloni, estinte da parecchio. Questo mai: avrebbe dato l'anima pur di evitare simili osceni accostamenti al mondo delle lettere.
Si fece un lungo tiro di ossigeno dalla sigaretta e proseguì.
Sguardo strano, diffidente e spaesato, spalle curve, mandibola contratta.
Prima pineta. Pozze d'acqua stagnante con esserini semiliquidi all'interno. Prese un doppio antimicotico, bevve un sorso da terra e proseguì. Ricordava intanto il terzo compleanno di Rory. Le aveva regalato una fascia per capelli "Infra" rossa come quella della mamma e lei lo aveva ringraziato leggendogli una poesia disegnata, tipo rebus metrico, preparata insieme a "mammì" per la festa del papà, ormai prossima.
Secondo e terzo bosco quasi secchi. Poco ossigeno e tanta ansia. Voglia velata di casa, di crollare, di baciare guanciale e guance di Ismolda. Materasso di lattice e morbidi seni ad acqua. Ben tre tiri di sigaretta e andò avanti.
Vide il quarto spiazzo vegetale e gli sembrò subito strano. C'erano due file non omogenee di alberelli che conducevano a un precipizio. Si avvicinò con calma ma ad un tratto sentì un boato e si ritrasse. Un'onda enorme salì dalla gola fino in cielo per poi tornare maestosa sui suoi passi. L'aria spostata nella discesa trascinò l'esploratore nel vuoto del crepaccio e del suo futuro. Tentò di aprire le braccia in cerca di un appiglio e lo trovò in un piccolo cespuglio bianco. Si guardò intorno, aggrappato e spaurito: una miriade di ramoscelli sulla parete rocciosa, una vera e propria foresta calcarea verticale! Purtroppo per lui, però, quelli più in alto erano troppo distanti da raggiungere; cosicchè la risalita era impossibile. Inspirò più volte in quel polmone naturale ma non riusciva a calmarsi. L'acqua comunque -il vero e proprio mare che aveva scoperto-, a giudicare dall'aspetto florido delle piantine, non doveva arrivare fin lì più di una volta al giorno. Magra consolazione. Non restava che scendere. Riflettè qualche istante su dove portare i piedi, baciò la foto nella cintura, poi lentamente si mosse. E attivò il pulsante sulla tasca del borsello che inviava un segnale verso la Terra per circa mezz'ora. Indicava il suo percorso finale. Era il solo modo per terminare il viaggio con dignità. Mostrare che negli ultimi minuti della sua vita portava avanti il cammino di scoperta. Il loro cammino. Che non si era arreso. Che procedeva senza paura. O almeno questo avrebbe indicato la traiettoria del segnale: che avanzava verso l'ignoto. La loro missione. La sua pena, senza Rory e Ismolda.
Poi d'un tratto nella discesa pensò solo alle sue donne. Niente più riscatto. Solamente ricordi e amore. Anche dinanzi all'abisso, fine dell'avventura, sorgente di miti familiari. La risata dolce di Ismolda nella sua testa coprì il rumore del ramo che si spezzava. Si ritrovò in volo ma riuscì prontamente ad afferrare con la mano sinistra una sorta di fiore rampicante, leggero e fragile rispetto al carico da reggere. Biancoroseo come le gambette di Rory e le mani affusolate di sua mamma. Sotto il cosmonauta molti metri di parete spoglia. Schianto certo. Così si ritrovò per qualche istante in bilico sulla sua vita, su Rory, su Ismolda, sul gioco d'azzardo, le statue ridicole e i cartelloni pubblicitari, i circuiti della nuova Terra e le erbacce parietali di questo vecchio pianeta, il fosso e lo spazio, i suoi desideri e ancora Ismolda. Decise di non urlare, anche se sentiva una vocina che da dentro gli ripeteva provocatoria: "Sono al Life Over e di gettoni per continuare questo gioco del cazzo gli intelligentoni se ne sono sbattuti altamente di inventarne".
Chiuse un occhio, poi l'altro, in attesa dell'aria in faccia.
Sentì un sibilo, ma alle sue spalle.
Aprì l'occhio destro, fece una torsione. Il fiore stava cedendo. Vide un filamento giallo e vi si aggrappò appena in tempo. Con uno strattone e poi più lentamente una corda lo stava tirando su! Non ci credeva. Per venticinque minuti piantine in risalita.
Quando le sue sopracciglia superarono il bordo del crepaccio la vide: Ismolda con un motorino per funi al plasma lo aveva ripescato! E c'era anche Rory con lei! Si misero a piangere e lo abbracciarono e baciarono. Poi Ismolda spiegò: "Ci hanno prelevato e portato nella base. Ci hanno detto che la prima fase -quella della ricerca- è terminata con successo. Che hai trovato l'acqua. Hanno aggiunto però che stavi per morire e che se volevamo salvarti dovevamo collaborare alla fase 2, quella del popolamento. E' immorale, lo so lo so, ma necessaria, per noi. Per te. Per salvarti. Ho detto sì perchè ti amo. E' difficile ma anche Rory capirà perchè pure lei è pazza di te. Perciò dài, mettiamola a nanna e diamoci da fare. Ci toglieremo il pensiero e staremo meglio. Dobbiamo concepire un figlio maschio per darlo in sposa a Rory. Non abbiamo scelta o manderanno delle sonde ad ucciderci. Siamo obbligati. Ad andare avanti. A popolare. Per vivere. Per combattere la fine con un nuovo inizio".
Il padre guardò Rory addormentarsi e le accarezzò la fronte con calma e lacrime. Ora anche Ismolda piangeva e sussurrava soavi ninnananne.
Poi di colpo la donna lo baciò e la sua voce si fece bassa e sensuale mentre prese ad accarezzarlo. Il viso di lui divenne un mosaico di emozioni contrastanti. Era stanco e incredulo, ora speranzoso ora triste. Non sapeva davvero cosa fare.
Allora Ismolda -ma era davvero lei o una sua copia robotorganica di ultima generazione? venne da sospettare all'uomo- lo punzecchiò sulla vena del collo con un ago di luce.
Così in lui, tra tante sensazioni, tutto d'un tratto campeggiò un unico pensiero ululante:
"Sei bellissima, cara. Non vedo l'ora di incominciare".

Checkmate

A night thought
touches you
shifting your chequered bedspread
dangling from the pillow
your side fringe

on the cover
you wrote words
incomplete crossword
of experience and fictions
you search the kingfather
or the fable
you are surrounded by
wood bone carvings
will never see through you

I try to orient myself
on the checkerboard
but this skein of sleep and rhymes
makes me oscillating in love bellyache
then it tautens like a circus trapeze net
catapulting me in air pocket
above

to fall back on your breasts
the only relief of a flat world
no risk no dream
a pawn is a pawn
a queen is the queen
and the table is a scheme dependent on you
don't deny
you love eating black and white squares
I am a transparent walker-on
in your closed fantasies

so sleep sweetheart
don't think of me
pawns dream of queenies
whereas
punctually
the queen dreams of herself

checkmate.

lunedì 29 giugno 2009

Dionysus 1969

Max Yasgur's farm
August and flowers from mud

Do you prefer
braziers on the moon
or stars in the puddle?
I ask the dove on the guitar

Always and anyhow both
hopping

And why does Jim,
the black Apollo,
try to remind napalm and civilisation,
while the WolfWagen shout
pastes the horizon on music?

Simple,
gap and riff,
age-old trick
yeah-yeah
cymbals bud from the sound fracture-

And so
she dances, dances silent and white
and her chirp will be rumble
"you are cosmic, baby"
says my eye
after and before
I die





Then a new usual generation.

martedì 19 maggio 2009

Beat Generation

Annusare la strada
al tramonto
con le ginocchia piegate
e la voce rauca
è il vostro pezzo forte,
per conquistare la fama
di milioni di giovani
che vogliono
la vostra morte da cani
per continuare a dormire
sui terrazzi delle villette
verniciate.
Dannati masochisti,
non potete non invecchiare.
Venite usati come
polvere su cui passare
verso l'Ovest
e poi di nuovo a Est,
scavalcando steccati
e lingue di vacca.
Ammettetelo,
volete una gloria fantoccio
solo per bruciarvi
col sorriso impostato.
Uno sconfitto non può convincere:
dovreste saperlo,
ormai.
Basta con questa trip-propaganda.
Ci avete regalato solo
interrail,
brillantina scadente
e DogGod.
Da buttare via.
Robaccia.
Vi detestiamo.
Eppure,
cari figli di puttana,
quando un vecchio zaino
si arrampica sulle mie spalle,
schiacciandomi,
o cado di faccia
sul terriccio ruvido,
la sento
la vostra presenza,
vicina,
fantasma.
Il vostro alito alcolico
mi rimette in piedi,
tempista.
E spazza via
la barriera biancorossa
a luce intermittente.
La strada è libera,
anche dopo il tramonto.
Raggi pallidi,
orizzonte mobile,
vecchia America.

venerdì 8 maggio 2009

La porta B/N

Esamino tranquillo materia e pensiero.
Vortici. Bolle.
Da quel gulp cosmico
a volte
proviene, calda,
una voce che mi chiama,
per scatenare una forza spaventosa,
per braccia così esili.
Ascoltami.
Il mio dito si piega
gracchiando
senza spezzarsi.
Sono più elastico.
Grazie. Prego.
E tremo come una folgore
che sta tornando al cielo
di rimbalzo-
e non teme più l'artiglio
vendicativo.
Ziiip.
Mi riconosci?
ROOOOOORSCHACH!
Già.

giovedì 16 aprile 2009

Julian Cope and the Judicious Cop - Postatomic Exemplum


Sulla strada rovente e deserta del dopo bomba, una Harley vecchio stile sfreccia fiera e indisturbata.

E' Julian. Julian Cope. Il santo.

Alla grande curva prima della mesa c'è ad aspettarlo, appiedato, Pasquale. Pasquale il poliziotto. Anche lui santo.

Dopo la grande guerra, i missili e il deserto, sono rimasti in due sul pianeta. Come fare a non proclamarsi santi? Ne hanno approfittato. Chiunque lo avrebbe fatto.

Pasquale alza la paletta per fermare la corsa del co-sopravvissuto. Ci riesce.

Julian, smontando dalla sella e raschiandosi il mento con forza, apre la bocca secca: "Che cazzo vuoi, sbirro?"

"Stia attento a come si esprime. Potrei arrestarla per offesa a pubblico ufficiale. Lo sa questo?"

"Sta' zitto, idiota. Fino a prova contraria mezzo e ferro sono in mio possesso. Sei ridotto maluccio. Ridicolo. E ancora porti la divisa abbottonata fino al gargarozzo, con tutto questo caldo" e sputa a terra in segno di scherno.

Pasquale, senza scomporsi, replica: "Il dovere è il dovere in qualunque situazione."

"Ma pezzo di cretino, l'hai capito sì o no che ci siamo solo io e te su questa putrida palla? Ti è chiaro, cervello gallonato?"

"Certo, certo. Ma uno ha degli obblighi anche in questi casi."

"Ma verso chi? Verso di me? Guarda che è tempo perso. Io me ne fotto."

"Verso tutti. Verso Dio. Ci aspetta, sai, al varco."

"Chi? Dio? Ha-ha. Parli come se fossi un fottuto poliziotto cristiano. L'unico varco che ho visto è la voragine aperta dal K-76 vicino al mio buco di casa."

"Sì, sono cristiano. Della polizia cristiana di Chicago, dipartimento 32. I migliori. Non mi arrendo dinanzi a niente, neanche in queste circostanze. Sono fedelissimo. Ho seguito anche uno splendido corso per allenare la calma, come guardia svizzera in Vaticano. Non è da tutti. Sono speciale. Io credo!"

"Tu sei tutto scemo" e rimonta in moto pronto a partire.

"Sei in arresto. Per eccesso di velocità e offese al corpo della polizia cristiana nordamericana. Ti avevo avvisato."

Il biker spegne il motore.

Si guardano con aria di sfida. Una sfida dal sapore antico sebbene sconosciuta.

Poi Cope, roteando gli occhi come se fosse a uno dei suoi concerti, indemoniato d'improvviso, scende, impugna il suo fucile corto e si avvicina puntandolo verso la fronte dell'altro.

Pasquale non si muove.

Julian ruota rapidamente l'arma e con il calcio colpisce in testa il poliziotto che rotola nella polvere.

Poi, con andatura strascicata, si avvicina alla sella della Harley ed estrae dal fodero la sua storica chitarra verde.

Torna sui suoi passi e inizia a randellare senza pietà il poliziotto cristiano indifeso.

Quando Pasquale è ormai piegato a terra pieno di lividi e sangue, Julian si allontana, si siede su una roccia e attacca a strimpellare con la chitarra mezza rotta la sua prediletta "Soul desert".

Pasquale apre un occhio e sentenzia con calmo rigore: "Il tuo comportamento non è ammissibile. Vedrai. Ci penserà la Legge."

Julian non lo ascolta, perso nel suo sorriso estatico e nello show solitario e azzeccato.

E' quasi arrivato alla fine della sua esibizione quando inserisce nel testo -per il resto non ritoccato- un esplicito insulto rivolto a Dio, una di quelle bestemmie disperate e poco originali.

A quelle parole un grido selvaggio spezza la musica: è Pasquale, incredibilmente in piedi vicino alla moto, con in pugno il fucile lasciato incustodito. Fa fuoco, colpendo Julian oltre la chitarra, in pieno ventre. La pallottola amplifica lo "Yeah" con cui si chiude la canzone. Uccidendolo.

-Muore nel modo in cui si è cantato, profeta strafottente e postapocalittico-.

Dopo alcuni minuti di silenzio e vento, il killer, barcollando, si avvicina al cadavere e gli strappa la chitarra ora calma. Alza lo sguardo, ma non regge il peso di un cielo troppo polveroso. E' costretto a riabbassarlo. A strisciare in basso come un serpente. Come Julian. Come il morto. E così si allontana solitario. Imitando le note precedentemente ascoltate. Come un fantasma che vaga in cerca dei suoi atomi.

Io assisto all'accaduto dallo schermo trasparente.

Forse sono morto anche io sotto le bombe e ora giudico, imparziale, dal paradiso. Aveva ragione Pasquale.

O forse mi trovo da qualche altra parte e ho solo visto uno spettacolo decente. Aveva ragione Julian.

martedì 14 aprile 2009

Tour alchemico

Ho deciso, in collaborazione con i miei professori, di inserire all'interno della mia tesi di laurea un'intervista a Basarab Nicolescu (fisico al CNRS e fondatore del Centro Internazionale di Ricerca e Studi Transdisciplinari) e una serie di foto da scattare nel Museo dell'Alchimia di Kutna Hora in Boemia. Ho intenzione quindi di organizzare un mio viaggio prima a Parigi o in Romania per discutere con Nicolescu (facendogli presente il mio tentativo di conciliare Epistemologia Contemporanea e Tradizione Alchemica), poi in Repubblica Ceca per visitare il Museo e incontrare il suo direttore Michal Pober (amico del mio professore e grande conoscitore del mondo alchemico-ermetico). Il cuore (sacro?) dell'Europa continental-orientale mi chiama. Sento bene il suo battito antico ma vitale. E sono ora un globulo rosso pronto a partire.

lunedì 13 aprile 2009

L'elixir di LZ

Serata dei quarti di finale di Champions League.
Aspettiamo che arrivi LZ a casa per cenare insieme. Ha detto di avere una sorpresa per noi. Ansiosi, l'attendiamo quasi più del calcio di inizio.
Il profumino anticipa di un soffio il suono del campanello.
Apro io.
Un vassoio di vetro appannato mi fa dimenticare il rito della sciarpa e dell'album con i francobolli dello scudetto 2000-2001 che strofino sempre sul plasma lucido in queste occasioni.
Lo chef premette varcando la soglia: "L'ho portato perchè so che probabilmente perderemo. La squadra è a pezzi. Non hanno fatto entrare i nostri tifosi per i soliti falsi pretesti. Quello che Gianmarco sta portando in cucina forse ci aiuterà a tirare su il morale: è asado argentino, la mia specialità". E intanto posa al centro della tavola un barattolo per pelati contenente un liquido giallastro. Accorgendomi del gesto spavaldo e della posizione privilegiata concessa all'oggetto di vetro, chiedo: "Cos'è? Sembra importante".
"E' fondamentale. Chimichurri. Fatto secondo la ricetta argentina tradizionale. Senza il chimichurri l'asado è una normalissima bistecca di manzo. Tutto qua", mi spiega brevemente LZ e inizia a cantare a squarciagola l'inno della Roma.
Io rimango tramortito più dalla risposta che dal successivo comportamento plateale. Quel "tutto qua" dice tutto proprio perchè non significa niente. "Vuole cambiare discorso", penso, "proprio perchè non vuole rivelarmi altro riguardo al misterioso chimichurri. Ma non finisce qui. Non mollo. La partita è appena all'inizio".
Punizione per la Roma. Tira Totti. Fuori. Arrivano i piatti con l'arrosto della pampa, fumante.
Aspetto la fine dell'azione successiva per assaggiarlo...
"Madonna Santa, è morbidissima per essere una bistecca! E speziata. Deve essere merito del chimichurri". Penso di aggiungerne altro dal barattolo a centro tavola, ma continuo a mangiare. I miei occhi passano velocemente dallo schermo alla forchetta e poi al viso soddisfatto di LZ.
La partita entra nel vivo: sento in sottofondo i fischi dei tifosi e vedo in primo piano il cranio calato dell'allenatore, ma non mi interessa.
I miei pensieri si muovono in lento disordine, come se assaporassero anche loro bocconi di cui non comprendono la provenienza.
Sto pensando al particolare stile di corsa degli arbitri: mi chiedo se la loro palese scoordinazione sia volontaria, cioè se venga usata come segno distintivo più efficace delle loro ridicole divise fosforescenti. "E' di sicuro così", borbotto mentalmente, "devono averli scelti o educati ben bene per ottenere questa caratteristica tipica della categoria: i corsi federali devono servire primariamente a questo".
Vedo gli ultras che si fanno i gestacci da una parte e dall'altra dei divisori in vetro, i poliziotti che li controllano dando le spalle al campo, il presidente e la moglie entrambi al telefonino, i pastori tedeschi della polizia che guardano il prato verde senza emozionarsi. Sembrano finti. Forse lo sono tutti nello stadio. Sarà un pubblico fasullo piazzato dalla tv satellitare per non cancellare del tutto la cornice di folklore intorno alla partita. Ma non è importante. Ciò che conta è il sapore. Dell'asado, chiaro.
L'unico che segue attentamente la partita è LZ: sbraita, impreca, si morde le mani. "Fa finta. Vuole evitare altre domande scomode sul condimento miracoloso", ne sono certo.
Nessuno però pensa minimamente di rivolgergli quelle domande interrompendo la catena di bocconi. Continuiamo a mangiare.
Squilla il telefono. Mia madre svogliatamente risponde. Mentre continuo a rivolgermi domande inutili, mio padre, scosso dal telefono, sceglie invece quella giusta e la pone a LZ: "Ma questo chimichurri come si fa? E' difficile?".
"Sì" è la risposta, seguita da un risolino difensivo.
"Ora finisce il primo tempo" continua papà, estraendo dalla tasca della camicia carta e penna, sotto lo sguardo di felice approvazione di mamma.
E al seguente duplice fischio aggiunge un "Sono pronto" che accentua ancora di più l'espressione nauseata di LZ.
Così intervengo io, senza pietà: "Sì, sarebbe bello se ci rivelassi la ricetta. Potremmo continuare la tradizione in famiglia, come in qualsiasi albero genealogico che si rispetti. Dài, dàiii".
L'accerchiato prova a ribellarsi, ma cambia subito idea, forse osservando la mia lingua ormai gocciolante. E cede: "OK. Allora prendete olio, aceto e acqua bollente: un terzo, un terzo e un terzo; mi raccomando, dovete essere precisissimi nel dosaggio e riempire la bottiglia fino all'orlo altrimenti potrebbe scoppiare mentre macera o comunque non otterreste il risultato sperato. Poi aggiungete due spicchi d'aglio e una manciata di peperoncino, scalogno, prezzemolo, paprika, alloro, origano, sale e pepe".
Ce l'abbiamo fatta.
La ricetta è nostra.
Mio padre sta certamente meditando di sperimentare la pozione di notte, da solo, in modo che tutti, quando di giorno rifiuterà un piatto fumante di amatriciana, possano pensare: "Che cinquantenne modello, fa di tutto per tenersi in forma. I suoi kili in eccesso devono dipendere dalla sua costituzione e dal normale sviluppo lipidico addominale maschile. Poverino, non riesce ad evitare di ingrassare, ma si impegna, è da elogiare".
Mia madre invece ha gli occhi chiusi a fessura, furbi, come se stesse pregustando la sua personale vendetta sulle sue amiche: adesso ha anche lei un segreto da svelare lentamente, a pezzi e mai completamente, in modo da cuocerle a fuoco lento, da tenerle in pugno, per una volta.
Sentendo le proporzioni così impeccabili finalmente rivelate da LZ affiorano in me sempre più nitide immagini relative ai miei studi di filosofia medievale: cerchi squadrati, i quattro elementi antropomorfizzati, incastri di geometrie figurate, ma anche alambicchi e vapori, numeri simbolici e allegorie colorate, fino a che non mi appare, in quella nebbia ormai rada, la figura di LZ in tutta la sua saggezza... di alchimista. "LZ è un alchimista", accenno tornando in me con un sorrisetto ingenuo dovuto alla visione che non fa che nobilitare le conoscenze culinarie da noi acquisite pochi istanti fa.
Mi crogiolo su questa idea. Mi piace talmente tanto da non dare peso all'LZ che mi trovo davanti, intento a strapparsi i capelli perchè l'Arsenal ci ha segnato il gol-qualificazione.
Quando ci abbraccia forte prima di andarsene singhiozzando perchè la Roma è fuori dalla Coppa penso che l'enfasi sia un bluff ma che volente o nolente quell'abbraccio sancisca il nostro ingresso definitivo nella cerchia dei custodi del segreto del vero chimichurri.
Felicissimo per le scoperte serali, vado a letto.
Mi rotolo un po', scodinzolando tra le lenzuola, e sto per prendere sonno quando alcune cifre mi fanno aggrottare la fronte contro il cuscino: "Un terzo più un terzo più un terzo fa tre terzi, cioè un intero: ossia tutto il barattolo se riempito fino all'orlo come stabilito. Non c'è più spazio per immergere tutta quella compagine di spezie. Gesù Gesù, i rapporti non sono esatti! Sono imprecisi! O comunque aperti all'interpretazione, cioè discutibili!".
Sollevo leggermente la testa e sgrano gli occhi riprovando il conto.
Non va! Non va? Non va.
Immagino che LZ si sia ormai barricato in casa per non essere più stuzzicato. Che non lo rivedremo per molto tempo perchè la Champions per noi è finita. O che forse abbia già fatto le valigie per scappare e conservare il segreto. Ma queste possibili evoluzioni della vicenda sono solo supposizioni insonnolite.
Quel che è certo è che per ora LZ ci ha fregati tutti.
Che ad oggi è lui il giusto boss. Il maestro. E' lui il vero e unico custode.
E così sia.

domenica 29 marzo 2009

Canned revolution

Time is an infinite Chinese box
empty
if it makes Muppets floppy
and Quincy Magoo bulging-eyed
and tells Totò
"stop swinging"
I know I must not cry
I cannot open it
I desire to tickle it
whispering from a corner
"I want to be a sunny Tibetan"

lunedì 23 marzo 2009

Bruxismo

Il paese è deserto.
Solo carcasse in miniatura rotolano decise verso i margini.
Tutte le luci sono spente, anche lungo la pista per il Canyon.
L'unico posto illuminato è il nuovo saloon dorato.
Lì, tra rutti e sghignazzate, si continua a tracannare colluttorio.
Ma l'atmosfera è acida e i ricordi pesano.
Le porte arrossate si spalancano e il piccolo Dalatte annuncia:
"Stanno arrivando, Pepita può uscire".
Il ricco padrone della bettola di lusso saluta la sua carnosa puttana
e si avvia verso la strada viscida.
Una fitta alla radice lo fa dondolare come un sogno premonitore.
"Sarà una notte magnifica", sibila
accarezzando la macchinetta a schioppo
che fornirà la panoramica della sfida.
E' raggiante: con la promessa di un po' del suo oro
ha attirato nella vecchia Mouthville
i tre più famigerati mastini delle terre inferiori
e degli altopiani circostanti.
Sono lì, ognuno di fronte agli altri:
-il Sano (che spazzola distante i suoi coltelli luccicanti)
-il Cariato (allungato e fiero della sua sporcizia)
-il Canino (che dà a pelle l'impressione della sua spietatezza).
Pepita, silenzioso, svuota il sacchetto con la polvere d'oro
e proclama:
"Distanziatevi e siate pronti:
al terzo respiro del Grande Alito potete attaccare".
Sono schierati.
Il primo soffio che sale dalla gola fa rabbrividire le ragazze
affacciate ai balconcini sopra l'impalcatura metallica;
la coroncina fluoreale di una di loro scivola via.
Il secondo, più deciso, zittisce anche il blues dei Piombati
seduti nel ghetto, a est.
Il terzo...
si fa attendere...
e la saliva aumenta,
i trapani fremono nell'attesa di essere sfoderati,
il silenzio echeggia e rimbomba...
fino al segnale...
eccolo!
I tre sono scaltri e si scagliano senza esitazione nè rimorsi.
Sfogano così le loro ansie quotidiane.
E' la loro filosofia di aguzzi mercenari: niente giudizi morali
(nè tantomeno molari, i peggiori,
roba da ignavi che si nascondono nelle retrovie);
per loro hanno importanza solo i verdoni
e la dimostrazione di non aver perso lo smalto di un tempo.
La battaglia è tremenda:
dignignamenti, schegge e polpa che ricoprono il terreno poroso
e rimbalzano fino alla volta affrescata da costellazioni sinuose.
E' un suicidio, ma loro continuano imperterriti, fino all'alba.
Pepita si gratta soddisfatto.
Loro non mollano la presa, fino all'ultimo.
Sono sfiniti, tritati. Non c'è un vincitore. Solo Pepita.
Così alla sprovvista si apre su quella situazione
uno squarcio di mondo
che illumina le tre macerie biancastre.
Si girano su un lato per non perdersi ormai quasi devitalizzati
quella luce angelica,
quel cono sfavillante
che riesce a zittire e oltrepassare anche il Grande Alito.
E' davvero Dio?
"Certo", pensano.
E hanno ragione.
E' il solo in grado
di disporre della pasta bianchissima con cui li sigilla,
panacea dal profumo soave e dai risultati miracolosi.
E infatti li rimette in sesto, completamente.
Possono vivere, nell'attesa di nuovi sogni.

sabato 21 marzo 2009

La corsa

Stavamo andando a casa di mio zio, in macchina. Mio padre abbassò gradualmente la musica, usando il tasto “v” sul volante.
“Tua madre si candida per diventare sindaco¡”
“Perché stranamente parla a bassa voce? L’ho sentito a mala pena”, pensai. E questa cosa mi incuriosì. Era riuscito ad attirare la mia attenzione, una volta tanto. Di sicuro si era allenato per frenare la voce. Doveva trattarsi di una cosa davvero importante.
“Cosa ne pensi?¡”, proseguì.
“Avete già deciso, non serve chiedermelo”
“Serve~”
“OK. Comunque non sono d’accordo”
“Perché?”, chiese mia madre, sporgendo gentilmente la testa dal sedile. Allenata anche lei. Notevole.
“□”
“□”, mamma non capiva il mio silenzio
“□”, né papà la mia pausa perplessa.
Li accontentai: “Ti sbraneranno: hai dalla tua il peso dei fatti e dell’onestà. Avevi la rabbia e l’aggressività: non credo ti sarebbero servite a molto, ma almeno eri tu, eravate voi, vi riconoscevo. Ora questo tono pacato, politico, per provare a sfidarli sullo stesso piano… non va, gioca a loro favore. Voi non siete così. Non potete sfidarli. Loro usano le bugie, le mazzette, il phard.”

“Non pensi di esagerare?”
“□”
“□□”
“No.”
“Anzi” aggiunsi “voglio scommettere le paghette dei prossimi 3 mesi che perderete. Accettate?”
Non risposero. Perché i cancelli della residenza estiva di mio zio si stavano aprendo. Avevano poco tempo (anche se il viale era lungo) per organizzare il discorso più soft possibile per far sì che appoggiasse la candidatura. Zio aveva due amici tra i rivali. Avrebbe tentato di mediare, probabilmente di inserire mamma nella loro lista in posizione subalterna perché “loro sono più esperti in politica”. Dovevano restare calmi, umili e disponibili per sperare di ottenere qualcosa di più dal beneamato zietto.
Tre respiri trattenuti e la macchina si arrestò davanti ai gradoni di marmo. Subito un anziano, uscendo dal portone in pantofole, cominciò a sbracciare col suo sorriso d’oro che si abbinava bene al legnoso sigaro spento che masticava lateralmente.
“Uééééé, che sorpresaaa!” Si avvicinò al finestrino in attesa di abbracciarci.
Papà lo abbassò e disse rapido: “Silvana si candida. Crede sinceramente che le cose in paese vadano male. E che qualcuno debba impegnarsi attivamente per migliorarle” … proseguì lei: “lo faccio per giustizia, e per amore, perché lì intorno a noi è tutto marcio, non si può più vivere così. Io voglio e devo farlo. Mi voti?”
La faccia di zio si strinse in un altro grasso sorriso. “Bene, bene”, disse. “Parliamone, potrei aiutarti, credo, entrate”.
“Non ti ho chiesto aiuto. Ho detto:”Mi voti?””
“Sì, la voti?”, ripetè papà dal sedile più vicino.
“□” fece lui aggrottando la fronte, senza però intaccare il suo famigerato riso.
“Niente pause, esigiamo una risposta.”
“□”
“Subito.”
“■”
“??”-lo incalzarono.
“■” continuò zio, provando ad imporre il suo silenzio ormai nudo.
“Vigliacco!! Falso!! Coniglio!! Viscido!! Stronzo!!” tuonarono i miei genitori.
La nostra vecchia Lancia ripartì proprio quando un sigaro cadeva da una faccia finalmente seriosa.

Mentre guardavo dal finestrino gli alberi che ci schivavano terrorizzati, pensai: “Ce l’ho fatta. Sono finalmente tornati sani. Ora posso aiutarli. Sarà dura continuare la corsa. Ma sempre meno di prima di fare visita a zio”.




P.S. Ringrazio J. S. Foer per avermi insegnato nuove tecniche di punteggiatura. Mi scuso per non avergli chiesto il permesso di usarle, ma sono sicuro che mi avrebbe risposto di sì. Ci tengo a chiarire che la mia famiglia non si impegna per arrabbiarsi: noi siamo in scioltezza dei signornò.

Hula hoop

Un neutrino svirgola
e il cosmo si ferma
tu sorridi
io un po' meno
dovevo ancora baciarti sotto la guancia paffuta
le mie solite promesse serali
ci servirebbe Dio
l'ho sempre sfottuto
invece ci aiuta
casualmente
è inciampato nella tua telepatia
ha risolto il cruciverba
e tu arrossisci.

giovedì 19 marzo 2009

Nostalgia

Ti ho detto di aver comprato il carillon all'entrata del porto,
giù a Vannes.
E non mi credi. Sai bene che l'ho fatto per te con le mie mani,
pazientemente.
Ho riprodotto persino il modo in cui la Hepburn mi stringeva forte,
nel 1950,
quando sgommando le mostravo i viali di Roma
che l'avrebbero portata al successo
tre anni dopo.
Ora perchè piangi? Guardami.
No, non preoccuparti, non voglio convincerti a sposarmi, bella.
Sarebbe tempo perso; purtroppo hai altri progetti.
E' un regalo e basta. Di addio. Ti lascio libera,
come un tempo, quando ci incontrammo
su un tipico prato della Loira. Al sole.
Cosa?!
Vuoi restare con me ma sei gelosa della Hepburn!?
Ma Cristo Santo, stiamo parlando di Audrey Hepburn!
Non è mica colpa mia se da giovane -e sconosciuta-
ha scelto di fare l'amore con me!
Sì, ma certo che la tua pelle è più chiara. E la tua pronuncia migliore.
Ti avrei scelta anche se Lei fosse viva. Non ho dubbi.
Ora però prendi il tuo foulard che mi piace tanto.
Sciacquati il viso e non pensare a nulla. Vieni,
dài.
Andiamo a farci un giro in Vespa: ho tante cose da raccontarti.

mercoledì 18 marzo 2009

Cervelli in campo chiuso (ovvero il mio delirio post-focaccia)

Le sinapsi a volte si sentono sole
in tutto quel traffico.
Sono così maledettamente uguali. Si intrecciano
legano vogliono aspettano e rallentano.
Non giudicano opportune le scelte del leader, mai.
Alcune sputano pure, e non hanno tergicristalli liquidi per difendersi dal contrattacco.
Adorano guardare la volta illuminata e rosea
il mondo finisce lì, non c’è dubbio.
Quel che è sicuro è che avere la barba lunga è quasi sempre rispettabile
ma rischioso.
“Non voglio uscire", disse a neuronona. "Odio la guerra e la puzza di idee.”
Zitto e cammina, gallina del cervello.
Elettroshock e vitamine
pane fumante e caffè americano. Che strano. Ma la cura funziona. È la ragione che si ridistribuisce
gli antichi bottini,
la luce, le tonalità sfavillanti, la sua bomba ad acqua. È così. Può vivere.
È Amore Vero.

martedì 17 marzo 2009

Ultrasuoni Cap.3

Era proiettato verso l'alto a tutta velocità. Continuava a salire. Da circa mezzo minuto non avvertiva più la fatica, a causa della monotonia dei gradini e dell'ansia. Non gli era mai capitato che il suo rampino a propulsione fosse andato fuori uso; e tantomeno in un momento del genere, quando tutti gli ascensori erano fermi per volere della polizia che ormai da un po' remava contro le iniziative personali. Da un pezzo non c'era più Lucius a revisionare il suo arsenale, prima o poi un guasto sarebbe dovuto capitare. Ma perchè proprio ora? Proprio quando c'era lei da salvare? Non era servito a nulla dirle di no anni addietro. Dirle che era meglio non sposarsi perchè era troppo pericoloso. L'aveva fatto per proteggerla, allora. A quel tempo era giovane: non immaginava che un giorno avrebbe detto basta alla lotta al crimine, trasformandosi in un damerino laccato di bianco, per frustrazione e per seguire la moda. Era finito il tempo delle grandi sfide tra supercriminali e vigilanti mascherati; i cittadini "puliti" (come lui, ora) erano protetti con metodi più moderni, da squadroni compatti di piccoli sbirri clonati e microchippati che rinchiudevano i malviventi in prigioni elettroniche praticamente inespugnabili. Così credevano tutti ormai da dieci anni e la società si era sviluppata sulla base di questa sicurezza.
Nessuno, nessuno aveva immaginato questa eventualità, la peggiore di tutte, ritenuta ridicola per esorcizzare il terrore supremo che le stava dietro: i criminali (i pezzi grossi, non le mezze-tacche) erano rimasti isolati per dieci anni PER SCELTA! C'era forse un patto segreto dietro questa strategia, ma il punto era che loro avevano lasciato che le difese sociali si indebolissero da sole durante il lungo lasso di tempo per mancanza di stimoli! Anzi avevano praticamente modellato a loro piacimento l'intera Gotham da dietro le sbarre senza muovere un dito! Tutte le misure di sicurezza, le terapie, i programmi di recupero erano piccoli inganni, soddisfazioni o anche sofferenze, ma pur sempre nell'attesa (tanto attesa) del giorno stabilito, del momento della burla suprema, del giorno del giudizio (ingiudizioso)! OGGI!
Erano evasi tutti. I suoi nemici storici. Più carichi e pronti di lui, più giovani, grazie agli ormoni presi in manicomio, che, invece di avere effetti cerebrali (come creduto), avevano prodotto solamente benefici fisici. Gli scorrevano davanti in una carrellata verticale, uno ad ogni scala, in ordine alfabetico: ... Edera, Enigmista, Faccia di creta, Facce, Festa, Freeze, Harley Quinn, JOKER. L'impressione di rivedere di lì a poco (molto poco) quel ghigno, immobile anche nel tempo, non invecchiato, lo fece arrestare. Era un urlo. Sapeva che sarebbe successo. Il Joker lo teneva in pugno, nel suo guanto gommoso e letale. Avrebbe dovuto sposarla prima, anni addietro. I suoi occhi divennero lucidi: troppo tempo che non la vedeva e troppo tempo dal suo ultimo sguardo feroce. L'ultima volta lei gli aveva risposto, sotto il porticato: "E' tardi, Bruce. Sono sposata, ho due bambine." e lo aveva guardato con tenerezza, quasi con pietà. Forse per via del costume bianco. Aveva pianto, quel giorno. Ora non poteva, non c'era il tempo materiale perchè le lacrime gli rigassero la maschera. In un baleno ruppe il vetro e guardò in alto. In quell'istante, a soli quindici centimetri da lui, una donna cadeva. Per un attimo si guardarono negli occhi, la bocca di lei superò capovolta e semiaperta il viso del Pipistrello albino. Era bella con i capelli grigi. Maledetto spara-rampini. Si lanciò comunque, dietro di lei: doveva raggiungerla. Non avrebbe potuto aprire le ali perchè avrebbero frenato l'inseguimento verticale. Voleva abbracciarla. Ormai il Joker l'aveva fregato. Voleva comunque dire a Rachel che l'amava, stringerle le mani, magari baciarla. Ma erano troppo vicini alla strada. Riuscì solo a stringerle una caviglia, con forza. Una lacrima di Rachel, sfidando la gravità, gli solcò la guancia nuda sotto la maschera prima di salire verso il cielo. Era il suo ultimo bacio, il giusto modo per dirsi addio. Chiuse gli occhi, anche se voleva continuare a guardarla.

...

Il mondo si capovolse e lui non mollò la presa. Vide, accanto alla cima del grattacielo, un elicottero viola e verde con dei campanellini legati alle pale: un gigantesco e volante cappello da giullare che si avvicinava sempre più. Stavano risalendo! Come aveva fatto a non notarla? Una molla trasparente e ultraresistente: bungee jumping!
Il Joker voleva divertirsi, come sempre. E quello era il suo gomitolo e Batman il suo topo (volante).
La città era piena di balocchi. Il paese della cuccagna. Una grande festa sacrificale.
Divertimento (per gli evasi) e morte. Era questo il piano. Un grande flipper dell'orrore: suoni, luci, punti sul tabellone e una sola certezza: alla fine la pallina va giù.
Però intanto lui aveva rincontrato lei. Tagliò rapidamente -con il bat simbolo affilato- l'elastico che cingeva i fianchi di Rachel, la strinse a sè e aprì il mantello. Lei appoggiò il mento sulla sua spalla e planarono nostalgici tra i grattacieli.
Anche questo momento di tenerezza faceva parte del progetto di ricreazione criminale. Era stato concesso alla coppia volante per farsi burla delle loro debolezze. Della sua debolezza. Batman lo sapeva.
Nonostante ciò gli scappò un sorriso che deviò la discesa delle lacrime: non riusciva a togliersi dalla testa quella stupida idea. "C'è un solo modo per arrestare una partita di flipper: scuoterlo tanto violentemente da mandarlo in TILT".
Un riflesso argenteo e luminoso fece risplendere i suoi occhi. I grattacieli di fronte? Il vetro e la biglia del flipper? No, no, ...
stava solamente tornando giovane.

Ultrasuoni Cap.2

Allora, la domanda è:
Come scoprire il vero esemplare di "Batman"?
Beh, un modo ci sarebbe. Inutili le indagini poliziesche o giornalistiche, gli scoop o le elugubrazioni di qualsiasi tipo. Il metodo più sicuro e immediato, probabilmente l'unico efficace nel far saltar fuori la natura del "pipistrello", è comunemente detto "momento dell'azione": ovvero quella particolare situazione critica della vita (di una città, di un individuo, di una comunità) in cui le parole sono inutili, anzi dannose, e l'unico movimento sensato di mandibola e mascella è il loro avvicinamento a formare una massa contratta e resistente, uno scudo. Sì, in questi casi serrare la mascella (e resistere) è la prima mossa da fare, il primo passo per scostarsi dall'abisso della paura e della disperazione, per trattenere le lacrime. L'azione comprende numerose componenti e fasi interne, non descrivibili nè filmabili in maniera esauriente - non è mica finzione nè tantomeno backstage-; è estremamente complessa, ma, in qualche raro caso, lascia un'impressione indelebile, un flash, che ne sintetizza forse il motivo clou, che ne abbozza i contorni, il raggio di "azione", appunto. Per l'azione tipica di Batman questa sensazione è data dalla parola "giocare" (dal tema del gioco), in quanto la maggior parte delle avventure di Batman rivela la dinamica del partecipare a un grande, complesso e pericoloso gioco (che per l'espressione da duri "Volete giocare? E giochiamo pure!" si siano ispirati all' Uomo Pipistrello? Non è dato saperlo). I suoi avversari infatti hanno tutti un qualcosa di "pupazzesco". Si tratta di pupazzi cresciuti e deformati, principi di macabre burle e ingegnosi giochetti: dalle carte del giullare Joker (e dai campanellini della sua spalla Harley Quinn -con pronuncia Harlequin, ovvero Arlecchino-) agli intricati indovinelli dell'Enigmista, dalla mania per festività e ricorrenze (giorni di allegria) propria dell'Uomo Calendario e di Festa allo scarabocchio che chiude ogni "partita" dell'Impiccato. Anche lo Spaventapasseri, con la sua maschera da fantoccio, e il gommoso e "truccato" Pinguino rientrano in questa farsa schizoide, in cui un ruolo tra i protagonisti (seppur con brevi apparizioni "teatrali", o meglio "teatrinali") se l'è ritagliato anche il Ventriloquo, signore dei pupazzi e dei burattini, tra i quali spicca il suo doppio, la marionetta Scarface, con il suo ghigno a scatti. Da sempre i nemici hanno ironizzato sull'espressione seria dell'Uomo Pipistrello: "Perchè sei così serio?" è un topos degli incontri di Batman con i criminali, le cui orribili risa hanno scosso dalle fondamenta i palazzi di Gotham. Il loro specchio deformante adagiato alle porte della città ha condotto gli abitanti in una spirale di delirio e paura e trasformato Gotham City in un carillon degli orrori. La stessa figura di Batman è forse nata grazie e in risposta ai "criminali balocchi" (come li ha definiti il Gotham Post): travestimento, reazioni violente, sviluppo della tecnica circense dell'escapologia mostrano il coinvolgimento di Batman in questo maestoso Luna Park, mentre il costume nero (invece dei terribili colori luminosi e sgargianti degli indumenti dei crudeli clown), il possesso di cuore e cervello in contemporanea e la serietà rappresentano forse lo scarto più evidente tra lui e i malvagi, o per lo meno il tentativo operato da lui per distinguersi da loro. Solamente congiungendo questi due opposti tasselli (manie e intenzioni di Batman) si può capire perchè il "cavaliere vestito di nero" è il solo che possa far fronte a questo esercito di folli "cartonati". Immedesimazione e distacco, ovvero il gioco della molla: questo è il trucco!
Questo succinto studio di ludologia criminale (pubblicato da Susan Fox allo scopo di contrastare la fama e di negare i risultati della ludoterapia) comparato con la postilla sul comportamento del pipistrello in gabbia (munita di ruota per criceti) ha il solo scopo di mostrare che per far uscire allo scoperto Batman c'è bisogno di coinvolgerlo in un bizzarro e spassoso gioco cittadino.E chi meglio dei vecchi nemici- ora rinchiusi nel manicomio criminale di Arkham- è capace di organizzare "giochi di società"?
Un clank improvviso spalancò la porta blindata numero 9.
I capelli verdi sorvolarono la camicia di forza in una mossa repentina e, schivando le spalle incurvate, lasciarono trasparire un profilo aguzzo.
Il rossetto si sollevò ancor di più a un lato della sua bocca e si udì un sibilo...... "hi-hi-hiia-hiia-hiiaaaa...."

Ultrasuoni Cap.1

Stasera al teatro classico di Gotham la prima del nuovo film dell' "uomo pipistrello"!
Seguendo le onde purpuree del tappeto di gala, l'occhio aperto della camera si ferma su una scarpa da sera:tacco alto, punta stretta, nastri laterali, la serata è iniziata, è lei. I giornalisti di moda e a modo le vanno incontro. Descrizione coprispalle. Flash. Chignon e orecchini. Flash. Anelli sulle dita della mano destra. Flash. L'altra viene avvolta da una presa galante e possessiva. E' tempestivo, quasi come nel film. Sa che deve starle vicino, proteggerla, se vuole alimentare e reggere il confronto. Se ce ne fosse bisogno. In realtà non gli interessa granchè del paragone con il vero "pipistrello": sa che era un duro, ma ormai è fuori gioco. E' capace solamente di riscuotere premi e ovazioni da vecchi fans e dai loro pargoli tirati su nel mito del bat-segnale. E' un reduce. Da anni le sue avventure sono ricordate solamente dai vecchi cronisti dotati di taccuino e flash a schioppo.
L'attore sa che l'immagine eroica di Batman non è merito del vero Batman, ma vive solamente grazie alle sue frasi brevi, agli allenamenti sul set, agli steroidi.
Così pian piano pensa il famoso attore: "Anche se arriverà qui in sala, come ha promesso, Batman ormai è diverso. Si è adeguato ai tempi. A quelli andati, intendo. E' storia. E' un cimelio ed è imbellettato come un cimelio. Dicono del suo nuovo costume un gran bene, gli anziani. Ai giovani "alternativi" farà ridere, ne sono certo. Io sono il loro Batman, anzi credo proprio di essere io, ormai, il solo Batman!"
Se ne convince ancor di più qualche minuto dopo, a partire dalla limousine bianca.
Ne viene fuori la vecchia star. Il suo nuovo costume (o vestito?) nazionalpopolare è opera di un noto stilista italiano, ora soprannominato Lucio Volpe (in onore del leggendario - e forse fittizio- Lucius Fox). E' bianco (moderato, per non scontentare nessuno), con sottili rifiniture rosse e blu (in onore dei due partiti). Per le riviste di moda è l'uomo più elegante della città, è nella top ten dei meglio vestiti d'America. Secondo i suoi vecchi avversari intervistati dalla prigione (tranne che per il Joker che lo ritiene amorevole) è più ridicolo di Capitan America.
Ma a Batman questi giudizi negativi non interessano: si sente orgoglioso di poter guardare dai vetri offuscati della sua Bat-limousine imbottigliata nel traffico gothamcitese molti bimbi e genitori che, appiccicati ai finestrini delle loro auto, con le mani formano il simbolo del pipistrello e lo acclamano. In una situazione del genere gli venne in mente per la prima volta il suo nuovo motto, che tuttora ripete sempre alla fine delle sue interviste in maniera ossessiva (forse per autogiustificare la sua nuova vita?): "Il pipistrello ha finalmente aperto gli occhi e può godersi la luce".
E' innocuo. Forse dietro la maschera i suoi occhi sono stanchi. Anzi, da quando a nessuno importa più di conoscere la sua vera identità, alcuni dicono che abbia sancito la sua definitiva consacrazione a personaggio pubblico facendosi cucire la maschera sul volto. Così nessuno lo avrebbe seguito nella sua grande casa per scoprire un altro volto. "L'unica faccia è questa coperta, non cercatene altre. Se ne volete due a tutti i costi, andate a disturbare Harvey Dent nel carcere cittadino" furono le parole di Batman che chiusero la telenovela una volta per tutte.
Ma forse proprio per affermare l'unica e vera figura di Batman, Batman l'aveva stravolta, sdoppiata, moltiplicata (tra passato e presente, tra lui e l'attore, tra lui e gli altri imitatori).
Chi di questi è Batman?
Ci sarà un modo per scoprirlo?

Horror maturae aetatis

10 febbraio 2011 - Notte.
La strada era vuota. Un po’ di nebbiolina biancastra oscillava vicino alla chiesa in fondo, come in ogni sera d’inverno lì nell’interland milanese.
La donna accelerò subito, strattonando il piccolo che ansimava. Gli disse a voce bassa, continuando a guardare avanti: ”Tra poco siamo a casa; per favore, non piangere”. E lui non piangeva. Si era voltato; anzi, ormai camminava con la faccia rivolta all’indietro, verso il punto in cui gli sembrava di averlo visto. Credeva così di poter svolgere al meglio il suo compito. Voleva coprire le spalle a sua madre. Voleva essere utile. D’altronde era stato lui ad osservare: “Mamma, lì c’è un uomo col cappello calato sugli occhi” e soprattutto ad insinuare: “E se fosse lui? Quello di cui parla la tele? L’ho visto il servizio, sai”. Dopo quelle parole la mamma aveva contratto le labbra, che sembravano così più bianche e anziane. Non si era voltata, forse per non farlo spaventare, ma le labbra, anche se chiuse, parlavano chiaro: anche lei aveva lo stesso sospetto, lo stesso terrore, probabilmente ancora più forte perché ne sapeva di più su quella storia. Allora aveva incominciato a tirarlo, in una progressione di passi sempre più lunghi e rapidi. Silenziosi. Forse stava maledicendo la festa dei suoi amichetti e soprattutto il suo vizio di essere sempre l’ultima ad andare via. Le piaceva chiacchierare, sempre, e questo ora faceva sembrare il suo viso finto. Era troppo serio, muto, rigido per essere vero. Doveva trattarsi di un incubo: una persona non può cambiare così tanto nel giro di un minuto (forse meno), non c’è frase o vista o sensazione capace di causare una metamorfosi simile. Eppure avanzava così, robotica, verso la chiesa. Guardando la luce giallastra del crocifisso in vetro e acciaio che si avvicinava, il viso della mamma parve illuminarsi, scuotersi; di colpo sembrava più speranzosa, forse per il simbolo, o più probabilmente per la maggiore luminosità del luogo. E questa improvvisa speranza materna fu come una coltellata nel suo piccolo stomaco: ora ne era certo, non stava sognando.
Mancavano due sole case prima dei gradini della chiesa quando la madre si arrestò di colpo. Lui avvertì una piccola oscillazione della mano che lo teneva, quasi una leggera scossa elettrica, una via di mezzo tra una stretta volta richiamare la sua attenzione e un brivido di terrore. Si voltò e non vide nessuno davanti a loro. La madre però aveva lo sguardo rivolto in basso: fissava qualcosa sul pavimento. Mise a fuoco anche lui. A due passi da loro, nello stretto quadrato che fungeva da incrocio tra un vicolo che sbucava da sinistra e il marciapiede che stavano percorrendo c’era una mannaia, lucida, pulita, nuova. Ne aveva sentito parlare, proprio al tg. La mamma aveva capito. Sarebbe scattata di corsa da un momento all’altro. Se lo sentiva ed era pronto a non farsi cogliere di sorpresa dallo strattone in avanti, quando lo strattone arrivò da dietro. Una mano grigia lo tirò per la spalla. La mamma si voltò di scatto, senza urla. Provò a recuperarlo, ma la stretta del mostro era caparbia, non mollava. Ci fu un istante di silenzio. Lei allora, impotente, guardò sotto il cappellaccio. Esclamò con gli occhi sgranati: “N-non è possibile, tu? Tu? No, non è possibile”. Sotto l’ombra della stretta tesa la luce proveniente dal moderno crocifisso fece risplendere un ghigno tremendo, perfetto. In quell’istante un velo nero, forse un cappuccio o un sacco, calò sugli occhi del bambino, un attimo prima che un sibilo metallico, un rumore di lama, passasse un palmo sopra la sua testa in direzione di sua madre.
Milano Nera colpisce ancora!”
Questo l’annuncio più ricorrente sui principali quotidiani nazionali. Uno dei maggiori serial killer della recente storia italiana. 35 vittime, uomini, donne, adulti e anziani, mai bambini. Ma proprio questi erano il suo pallino: usciva allo scoperto e colpiva solo quando un adulto era in compagnia di un piccolo da rapire. I grandi quotidiani lo chiamavano “Milano Nera”, appellativo molto poco originale diffuso volontariamente in fretta per evitare che si diffondesse il ben più cinico -ma calzante- “BabyLover”, soprannome “shocking” attribuitogli dai volgari quotidiani locali.
La polizia indagava ormai da otto mesi. Poche dichiarazioni, molta tensione, nessun bimbo ritrovato vivo né rinvenuto morto. Il commissario riceveva solo risposte scoraggianti, dagli agenti, dalla scientifica, ma soprattutto dai suoi superiori che stranamente non lanciavano minacce alla sua carriera, proprio questa volta che desiderava essere spronato. Ne aveva bisogno. Non si faceva capace di non riuscire a cavare un ragno dal buco da una storia così grossa. 40 bambini rapiti e 35 adulti morti, Cristo Santo! E quelli continuavano a ripetergli: “Niente, commissario. Niente di niente”. Fanculo tutti! Era troppo tempo che non si dava da fare sul serio. Troppi mesi, anni, dietro la scrivania dopo il caso che lo aveva reso celebre e soprattutto sicuro di sé, forte, convinto. Troppo. I suoi baffi erano bianchi e le rughe davanti ai lobi lo tormentavano. Doveva rimettersi in gioco. E intraprendere la pista solitaria, quella di un tempo. Aveva una sola carta da giocare, rispetto agli altri (ammesso che gli altri ne avessero qualcuna): il floppy verde.
“Un floppy nel 2009, bah!” aveva pensato aprendo il pacco postale tre sere prima. Ma il supporto si era rivelato (essere) la stranezza minore di quella sorpresa serale. Recava una sequenza di bit sull’etichetta (a mo’ di spiegazione o di firma - o di entrambe) e conteneva molte foto di un uomo con un cappellaccio scuro scattate da una posizione elevata: una finestra, un albero, un tetto. Le aveva ingrandite e analizzate a fondo: la zona delle foto era sempre la stessa ma in momenti della giornata differenti (cioè in diverse ore della notte). Quando l’uomo si vedeva di spalle il suo passo era più lungo, di fronte era più breve. Perché? Perché? Perché? La targa su un campanello di una porta, zoomato al massimo insieme al numero civico, gli aveva fornito nomi preziosi per individuare la località del passaggio. O dei passaggi? Forse non era uno dei tanti luoghi dei delitti, ma qualcos’altro. Qualcos’altro di più? Sì, doveva essere un rifugio molto frequentato a giudicare dalle numerose visite. Trovato!
Alba. C’era, ora. La porta dello scantinato fece subito clanck, senza troppa resistenza. Una rampa troppo lunga e ripida scendeva al buio. Si tolse con fatica il cappelletto di lana e mosse il piede in basso. I baffi gli prudevano. Brutto segno. Faceva caldo giù per le scale. Brutto segno. I capelli radi erano umidicci. In fondo una porticina di legno, leggera. La spinse piano, pistola in pugno.
Mentre si apriva, piccoli rumori e una luce tremolante sembravano proiettarlo in una dimensione strana, diversa da quella delle scale, ormai alle sue spalle. Una forte sensazione di disagio lo spinse a fare quasi automaticamente un passo indietro, riposizionandosi sotto l’arco della porta, in bilico tra due locali, tra due mondi. Alle spalle una scalinata vecchia, nuda e stranamente calda. In faccia invece aria un po’ più fresca (quasi gradevole), luce bianca moderna, ronzio di tv guasta misto a vocine bianche, poco chiare. Era disorientato. Uno sbalzo tra due stanze troppo netto, vigliacco. Un vero colpo basso, un’arma. Aveva paura. Sudava alla schiena mentre gli tremava il mento con il labbro inferiore. Fronte/retro si stavano dividendo lasciando spazio a una mousse di poliziotto sulla soglia. Si stava sciogliendo il suo asse centrale, mentale. Stava diventando una volontà-gelatina. La paura invece di pietrificarlo interamente, in quella particolare situazione aveva indurito le sue estremità dietro e front e annacquato il suo cervello e la sua determinazione. Gli stava per scivolare via la pistola grondante sudore quando una voce di bimbo lo invitò ad entrare, al più presto, pregandolo. Si lasciò andare in avanti ed entrò.Orrore. Una parete di televisori accesi ma non sintonizzati mandava fasci incostanti di luci e ombre su vetrate lunghe e lucide. Dietro i vetri c’erano almeno tre dozzine di bambini e bambine appiccicati alla parete trasparente come mosche, immobili. Avevano globi e palmi sgranati. Aspettavano che qualcosa o qualcuno si rivelasse dalla tv. Sì, dovevano sicuramente attendere una rivelazione dalle scatole catodiche, pensò il commissario. Ma queste rimanevano mute -se non si vuole considerare un messaggio il ronzio sonoro e visivo che continuavano ad emanare. L’uomo della legge si sentiva stanco, vecchio, fuori luogo, estromesso com’era da quello spettacolo. Come uno spettatore senza l’apparecchio auditel, inutile. Nessuno lo degnava di uno sguardo. E lui non osava richiamare la loro attenzione , sapeva che sarebbe stato inutile e rimaneva un passo dopo l’uscio, in silenzio. Ronzio. Gocce di sudore. Riflessi fluorescenti sui vetri e sui visi dei prigionieri ipnotizzati. E ancora ronzio. Immobilità.
Di colpo uno di loro, dei piccoli zombie, si fece spazio da dietro gli altri e iniziò così: “Sono l’ultimo arrivato. Il figlio dei notai di Linate. Non sono come loro. Non ancora. Non ha avuto il tempo. Aiutami!”
Gli altri non lo fissavano. Il poliziotto lo guardava come gli altri guardavano i pixel. Udì un lieve singulto uscire dalla sua bocca e questo lo fece sussultare. Scosse il capo velocemente. Gemme di sudore si allontanarono dai lati del cranio, da un punto di poco sopra le corte basette. Parlò: “Chi li ridotti così? Chi? Chi?”
“Lui, proprio lui” rispose indicando i tv color. L’immagine stava comparendo pian piano, e sul volto dei piccoli si notava la soddisfazione mista a un residuo di attesa. Un filo di saliva scivolò da un lato della bocca di uno di loro, lungo il mento e poi giù fino a terra. La liquidità della saliva si abbinava bene alla limpidezza delle mattonelle del pavimento, lucide. I televisori ora funzionavano bene. Una figura ormai nitida nello schermo prese la parola.
Fu in quel momento che il commissario capì, gli fu tutto chiaro, nonostante da quell’angolatura l’uomo nel video non era facilmente riconoscibile. Sembrava qualcun altro, ma il commissario sapeva che non lo era, che era proprio quello lì che pensava, senza scherzi. La strana e improvvisa certezza che si impossessò di lui gli fece vibrare il baffo, il braccio giù fino alla pistola. La sollevò. Non era più un pivello. Sapeva che poteva essere lì non solo virtualmente, ma con tutta la sua collezione di lame da macello. Non c’è ologramma senza la carne da cui questo prende spunto.
Il commissario inarcò leggermente gli arti, per stare più all’erta e pronto ad agire. Gli occhi erano poco più di due fessure. Nella penombra non si udiva nessun rumore significativo. Allora come una molla balzò fuori dalla stanza e iniziò a correre verso l’alto, sparando a raffica per illuminare e uccidere. Nessuno gli stava davanti. Non si voltò. Avrebbe perso tempo. Ma una torsione della spalla gli consentì di scaricare un’ultima raffica di proiettili alle sue spalle, alla cieca. Ancora pochi scalini, poi il portone.
Lo spinse violentemente e si trovò fuori.
Un raggio di luce solare gli diede fiducia. C’era gente lì intorno. Ce l’aveva fatta a uscire vivo da quella fossa tecnologica. Ora doveva solamente recarsi subito all’auto per chiamare il distretto. Si avvicinò alla macchina ancora un po’ scosso, ma con un accenno di sorriso che fuoriusciva. Stava aprendo soddisfatto la portiera quando il suo sguardo cadde sul marciapiede di fronte. C’era un’edicola. Le locandine riportavano a caratteri mastodontici tutte la stessa, identica frase: “Governo e Parlamento approvano d’urgenza la legge che rende LEGALE il rapimento di minori a scopo educativo”.
Fu allora che capì che non ce l’avrebbe mai fatta. La sua missione, la sua ultima missione, era fallita.
Un’idea risuonò nel suo cranio ormai spento e vuoto che come una cassa di risonanza la amplificò facendola uscire sotto forma di un sibilo sinistro, un messaggio forte ma pronunciato con un filo di voce, disperato e inquietante, inudito -dai passanti- e inaudito:
“I biografi ci avevano avvertito -disse-. Lui è diverso da Andreotti. Andreotti è un animale politico, una belva da Parlamento, si “scatena” in arena: è tanto rapido e letale su un seggio, quanto pantofolaio in casa. Lui no, lui è coerente e onnipresente. “I comunisti stanno mangiando i nostri bambini, dobbiamo salvarli”. Detto, fatto. Ora può togliersi il cappellaccio e continuare a sgozzare indisturbato: è Il Caimano, lui, non dimenticatelo”.

Le cronache di nada

Siamo controllati.
C'è bisogno di una svolta.
Le riforme non bastano, le rivoluzioni non bastano.
Basta! Mi rivolgo ai cittadini del mondo: questo non è un appello per diminuire le tasse né una richiesta per regolare i rapporti tra nazioni. Il mio scopo è di salvarmi, salvarvi, salvarci. Suicidatevi! Ognuno formuli un piano nei minimi dettagli: sbandare con l'auto e finire in un precipizio, tracce di cianuro, fiumi, revolver, fuoco sono alternative possibili. Dobbiamo disorientarli, mutare. Una volta saltati giù dal veicolo prima dello schianto, una volta approdati sull'altra riva senza vestiti né polpastrelli, una volta cancellate le impronte dall'impugnatura e dal grilletto o risorti dalle ceneri, sparpagliatevi, mescolatevi. Devono impazzire, i satelliti, i computer andranno in tilt; non più schedati: l'impasto è iniziato. Siate caparbi, ce la faremo.

Le luci si abbassarono, il conduttore, sorridente, lo ringraziò: sapeva che sarebbe stata l'ultima apparizione del leader del piccolo circolo ormai celebre. L'EF-GHE-A aveva deciso: "anche se non succederà nada, anche se non gli darà ascolto nessuno tranne qualche complottista fanatico, ci ha offesi. Non perchè ha alluso al nostro controllo universale, no, il problema è la cronaca nera! Da anni in tv è vietato parlare di cronaca nera. Sappiamo tutti che il capo non può ascoltare fatti di sangue, è tenero, lui. Ha paura. Uccidi, muori, sanguina, ma in privato. La dimensione pubblica è un'altra cosa, dice il capo. Ha parlato, deve sparire”.
Lo aspettavano fuori, erano tre, trench chiaro.
Nel corridoio al terzo piano degli studi televisivi, il leader del piccolo partito era solo, sapeva che fuori è un altro mondo, che la Rolls Royce dei “bravi” era dietro l'angolo.
Fermò le sue scarpe laccate prima del gradino iniziale, girò a destra.
La stanza era piccola e il manichino c'era. Gli assomigliava: aveva persino la ruga vicino all'orecchio.
Dopo il rumore della vetrata rotta, un uomo elegante si tuffò nel fiume ai piedi dell'edificio.
Il trio mise in moto la Royce.
Poteva essere un bluff di un tipetto che credeva di essere più giusto di loro, ma avevano comunque il dovere di controllare, di fare luce sul fiume, perchè poteva anche trattarsi del vero cadavere dell'uomo che - dopo il suo messaggio televisivo, promozione del finto suicidio di massa (“due miliardi di suicidi fittizi per un'unica salvezza dal giogo, per un rimescolamento radicale, anarchico”) - conosceva la sua sorte e, come tanti, come tutti, aveva finalmente conosciuto la paura.
Era così! Il leader aveva paura, ma la paura di morire in prigione era minore di quella di veder falliti sedici anni di progetti e discorsi scritti in vista di questo giorno, di analisi delle piante, dei condotti di aerazione, dei cunicoli e dei sotteranei dell'immenso palazzo della televisione. Aveva analizzato e previsto tutto. Lo scacco finale era lontano, ma lui ora era fuori, lontano dalla Rolls Royce, e soprattutto i nuovi baffi di copertura gli stavano dannatamente bene.
L'EF-GHE-A era tranquilla, lo avrebbero trovato e in ogni caso una formica non può atterrare un elefante.
Ma alcuni elefanti soffrono il solletico. E le molliche trasportate dalle formiche a volte sono estremamente pruriginose.
Gli occhi dei cinque uomini appollaiati in cima al precipizio erano illuminati dal bagliore dell'auto in fiamme in fondo al burrone. Erano saltati, sincronici, in tempo.