martedì 17 marzo 2009

Horror maturae aetatis

10 febbraio 2011 - Notte.
La strada era vuota. Un po’ di nebbiolina biancastra oscillava vicino alla chiesa in fondo, come in ogni sera d’inverno lì nell’interland milanese.
La donna accelerò subito, strattonando il piccolo che ansimava. Gli disse a voce bassa, continuando a guardare avanti: ”Tra poco siamo a casa; per favore, non piangere”. E lui non piangeva. Si era voltato; anzi, ormai camminava con la faccia rivolta all’indietro, verso il punto in cui gli sembrava di averlo visto. Credeva così di poter svolgere al meglio il suo compito. Voleva coprire le spalle a sua madre. Voleva essere utile. D’altronde era stato lui ad osservare: “Mamma, lì c’è un uomo col cappello calato sugli occhi” e soprattutto ad insinuare: “E se fosse lui? Quello di cui parla la tele? L’ho visto il servizio, sai”. Dopo quelle parole la mamma aveva contratto le labbra, che sembravano così più bianche e anziane. Non si era voltata, forse per non farlo spaventare, ma le labbra, anche se chiuse, parlavano chiaro: anche lei aveva lo stesso sospetto, lo stesso terrore, probabilmente ancora più forte perché ne sapeva di più su quella storia. Allora aveva incominciato a tirarlo, in una progressione di passi sempre più lunghi e rapidi. Silenziosi. Forse stava maledicendo la festa dei suoi amichetti e soprattutto il suo vizio di essere sempre l’ultima ad andare via. Le piaceva chiacchierare, sempre, e questo ora faceva sembrare il suo viso finto. Era troppo serio, muto, rigido per essere vero. Doveva trattarsi di un incubo: una persona non può cambiare così tanto nel giro di un minuto (forse meno), non c’è frase o vista o sensazione capace di causare una metamorfosi simile. Eppure avanzava così, robotica, verso la chiesa. Guardando la luce giallastra del crocifisso in vetro e acciaio che si avvicinava, il viso della mamma parve illuminarsi, scuotersi; di colpo sembrava più speranzosa, forse per il simbolo, o più probabilmente per la maggiore luminosità del luogo. E questa improvvisa speranza materna fu come una coltellata nel suo piccolo stomaco: ora ne era certo, non stava sognando.
Mancavano due sole case prima dei gradini della chiesa quando la madre si arrestò di colpo. Lui avvertì una piccola oscillazione della mano che lo teneva, quasi una leggera scossa elettrica, una via di mezzo tra una stretta volta richiamare la sua attenzione e un brivido di terrore. Si voltò e non vide nessuno davanti a loro. La madre però aveva lo sguardo rivolto in basso: fissava qualcosa sul pavimento. Mise a fuoco anche lui. A due passi da loro, nello stretto quadrato che fungeva da incrocio tra un vicolo che sbucava da sinistra e il marciapiede che stavano percorrendo c’era una mannaia, lucida, pulita, nuova. Ne aveva sentito parlare, proprio al tg. La mamma aveva capito. Sarebbe scattata di corsa da un momento all’altro. Se lo sentiva ed era pronto a non farsi cogliere di sorpresa dallo strattone in avanti, quando lo strattone arrivò da dietro. Una mano grigia lo tirò per la spalla. La mamma si voltò di scatto, senza urla. Provò a recuperarlo, ma la stretta del mostro era caparbia, non mollava. Ci fu un istante di silenzio. Lei allora, impotente, guardò sotto il cappellaccio. Esclamò con gli occhi sgranati: “N-non è possibile, tu? Tu? No, non è possibile”. Sotto l’ombra della stretta tesa la luce proveniente dal moderno crocifisso fece risplendere un ghigno tremendo, perfetto. In quell’istante un velo nero, forse un cappuccio o un sacco, calò sugli occhi del bambino, un attimo prima che un sibilo metallico, un rumore di lama, passasse un palmo sopra la sua testa in direzione di sua madre.
Milano Nera colpisce ancora!”
Questo l’annuncio più ricorrente sui principali quotidiani nazionali. Uno dei maggiori serial killer della recente storia italiana. 35 vittime, uomini, donne, adulti e anziani, mai bambini. Ma proprio questi erano il suo pallino: usciva allo scoperto e colpiva solo quando un adulto era in compagnia di un piccolo da rapire. I grandi quotidiani lo chiamavano “Milano Nera”, appellativo molto poco originale diffuso volontariamente in fretta per evitare che si diffondesse il ben più cinico -ma calzante- “BabyLover”, soprannome “shocking” attribuitogli dai volgari quotidiani locali.
La polizia indagava ormai da otto mesi. Poche dichiarazioni, molta tensione, nessun bimbo ritrovato vivo né rinvenuto morto. Il commissario riceveva solo risposte scoraggianti, dagli agenti, dalla scientifica, ma soprattutto dai suoi superiori che stranamente non lanciavano minacce alla sua carriera, proprio questa volta che desiderava essere spronato. Ne aveva bisogno. Non si faceva capace di non riuscire a cavare un ragno dal buco da una storia così grossa. 40 bambini rapiti e 35 adulti morti, Cristo Santo! E quelli continuavano a ripetergli: “Niente, commissario. Niente di niente”. Fanculo tutti! Era troppo tempo che non si dava da fare sul serio. Troppi mesi, anni, dietro la scrivania dopo il caso che lo aveva reso celebre e soprattutto sicuro di sé, forte, convinto. Troppo. I suoi baffi erano bianchi e le rughe davanti ai lobi lo tormentavano. Doveva rimettersi in gioco. E intraprendere la pista solitaria, quella di un tempo. Aveva una sola carta da giocare, rispetto agli altri (ammesso che gli altri ne avessero qualcuna): il floppy verde.
“Un floppy nel 2009, bah!” aveva pensato aprendo il pacco postale tre sere prima. Ma il supporto si era rivelato (essere) la stranezza minore di quella sorpresa serale. Recava una sequenza di bit sull’etichetta (a mo’ di spiegazione o di firma - o di entrambe) e conteneva molte foto di un uomo con un cappellaccio scuro scattate da una posizione elevata: una finestra, un albero, un tetto. Le aveva ingrandite e analizzate a fondo: la zona delle foto era sempre la stessa ma in momenti della giornata differenti (cioè in diverse ore della notte). Quando l’uomo si vedeva di spalle il suo passo era più lungo, di fronte era più breve. Perché? Perché? Perché? La targa su un campanello di una porta, zoomato al massimo insieme al numero civico, gli aveva fornito nomi preziosi per individuare la località del passaggio. O dei passaggi? Forse non era uno dei tanti luoghi dei delitti, ma qualcos’altro. Qualcos’altro di più? Sì, doveva essere un rifugio molto frequentato a giudicare dalle numerose visite. Trovato!
Alba. C’era, ora. La porta dello scantinato fece subito clanck, senza troppa resistenza. Una rampa troppo lunga e ripida scendeva al buio. Si tolse con fatica il cappelletto di lana e mosse il piede in basso. I baffi gli prudevano. Brutto segno. Faceva caldo giù per le scale. Brutto segno. I capelli radi erano umidicci. In fondo una porticina di legno, leggera. La spinse piano, pistola in pugno.
Mentre si apriva, piccoli rumori e una luce tremolante sembravano proiettarlo in una dimensione strana, diversa da quella delle scale, ormai alle sue spalle. Una forte sensazione di disagio lo spinse a fare quasi automaticamente un passo indietro, riposizionandosi sotto l’arco della porta, in bilico tra due locali, tra due mondi. Alle spalle una scalinata vecchia, nuda e stranamente calda. In faccia invece aria un po’ più fresca (quasi gradevole), luce bianca moderna, ronzio di tv guasta misto a vocine bianche, poco chiare. Era disorientato. Uno sbalzo tra due stanze troppo netto, vigliacco. Un vero colpo basso, un’arma. Aveva paura. Sudava alla schiena mentre gli tremava il mento con il labbro inferiore. Fronte/retro si stavano dividendo lasciando spazio a una mousse di poliziotto sulla soglia. Si stava sciogliendo il suo asse centrale, mentale. Stava diventando una volontà-gelatina. La paura invece di pietrificarlo interamente, in quella particolare situazione aveva indurito le sue estremità dietro e front e annacquato il suo cervello e la sua determinazione. Gli stava per scivolare via la pistola grondante sudore quando una voce di bimbo lo invitò ad entrare, al più presto, pregandolo. Si lasciò andare in avanti ed entrò.Orrore. Una parete di televisori accesi ma non sintonizzati mandava fasci incostanti di luci e ombre su vetrate lunghe e lucide. Dietro i vetri c’erano almeno tre dozzine di bambini e bambine appiccicati alla parete trasparente come mosche, immobili. Avevano globi e palmi sgranati. Aspettavano che qualcosa o qualcuno si rivelasse dalla tv. Sì, dovevano sicuramente attendere una rivelazione dalle scatole catodiche, pensò il commissario. Ma queste rimanevano mute -se non si vuole considerare un messaggio il ronzio sonoro e visivo che continuavano ad emanare. L’uomo della legge si sentiva stanco, vecchio, fuori luogo, estromesso com’era da quello spettacolo. Come uno spettatore senza l’apparecchio auditel, inutile. Nessuno lo degnava di uno sguardo. E lui non osava richiamare la loro attenzione , sapeva che sarebbe stato inutile e rimaneva un passo dopo l’uscio, in silenzio. Ronzio. Gocce di sudore. Riflessi fluorescenti sui vetri e sui visi dei prigionieri ipnotizzati. E ancora ronzio. Immobilità.
Di colpo uno di loro, dei piccoli zombie, si fece spazio da dietro gli altri e iniziò così: “Sono l’ultimo arrivato. Il figlio dei notai di Linate. Non sono come loro. Non ancora. Non ha avuto il tempo. Aiutami!”
Gli altri non lo fissavano. Il poliziotto lo guardava come gli altri guardavano i pixel. Udì un lieve singulto uscire dalla sua bocca e questo lo fece sussultare. Scosse il capo velocemente. Gemme di sudore si allontanarono dai lati del cranio, da un punto di poco sopra le corte basette. Parlò: “Chi li ridotti così? Chi? Chi?”
“Lui, proprio lui” rispose indicando i tv color. L’immagine stava comparendo pian piano, e sul volto dei piccoli si notava la soddisfazione mista a un residuo di attesa. Un filo di saliva scivolò da un lato della bocca di uno di loro, lungo il mento e poi giù fino a terra. La liquidità della saliva si abbinava bene alla limpidezza delle mattonelle del pavimento, lucide. I televisori ora funzionavano bene. Una figura ormai nitida nello schermo prese la parola.
Fu in quel momento che il commissario capì, gli fu tutto chiaro, nonostante da quell’angolatura l’uomo nel video non era facilmente riconoscibile. Sembrava qualcun altro, ma il commissario sapeva che non lo era, che era proprio quello lì che pensava, senza scherzi. La strana e improvvisa certezza che si impossessò di lui gli fece vibrare il baffo, il braccio giù fino alla pistola. La sollevò. Non era più un pivello. Sapeva che poteva essere lì non solo virtualmente, ma con tutta la sua collezione di lame da macello. Non c’è ologramma senza la carne da cui questo prende spunto.
Il commissario inarcò leggermente gli arti, per stare più all’erta e pronto ad agire. Gli occhi erano poco più di due fessure. Nella penombra non si udiva nessun rumore significativo. Allora come una molla balzò fuori dalla stanza e iniziò a correre verso l’alto, sparando a raffica per illuminare e uccidere. Nessuno gli stava davanti. Non si voltò. Avrebbe perso tempo. Ma una torsione della spalla gli consentì di scaricare un’ultima raffica di proiettili alle sue spalle, alla cieca. Ancora pochi scalini, poi il portone.
Lo spinse violentemente e si trovò fuori.
Un raggio di luce solare gli diede fiducia. C’era gente lì intorno. Ce l’aveva fatta a uscire vivo da quella fossa tecnologica. Ora doveva solamente recarsi subito all’auto per chiamare il distretto. Si avvicinò alla macchina ancora un po’ scosso, ma con un accenno di sorriso che fuoriusciva. Stava aprendo soddisfatto la portiera quando il suo sguardo cadde sul marciapiede di fronte. C’era un’edicola. Le locandine riportavano a caratteri mastodontici tutte la stessa, identica frase: “Governo e Parlamento approvano d’urgenza la legge che rende LEGALE il rapimento di minori a scopo educativo”.
Fu allora che capì che non ce l’avrebbe mai fatta. La sua missione, la sua ultima missione, era fallita.
Un’idea risuonò nel suo cranio ormai spento e vuoto che come una cassa di risonanza la amplificò facendola uscire sotto forma di un sibilo sinistro, un messaggio forte ma pronunciato con un filo di voce, disperato e inquietante, inudito -dai passanti- e inaudito:
“I biografi ci avevano avvertito -disse-. Lui è diverso da Andreotti. Andreotti è un animale politico, una belva da Parlamento, si “scatena” in arena: è tanto rapido e letale su un seggio, quanto pantofolaio in casa. Lui no, lui è coerente e onnipresente. “I comunisti stanno mangiando i nostri bambini, dobbiamo salvarli”. Detto, fatto. Ora può togliersi il cappellaccio e continuare a sgozzare indisturbato: è Il Caimano, lui, non dimenticatelo”.

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