domenica 21 novembre 2010

Gilberto

Così immagino e ricordo.
Guardando un incontro di boxe
a notte fonda
non ti curavi del silenzio circostante
perché riuscivi a concentrare l'attenzione
su gesti automatici, eleganti:
accendere una sigaretta, ascoltare il den den
che scandisce ogni ripresa,
spostare il posacenere, appoggiare lentamente il corpo
al tuo posto, a sinistra
sul divano.
Tutto qua?
La vita semplice.
La vita semplice
mi ripeto
quando mi rigiro nel dormiveglia, nervoso
alla ricerca
del sonno
o di qualche incontro da combattere,
di una sigaretta
o del mio posto.
Ripenso a quando rientravi a casa di nonna,
al crepuscolo.
La stufa crepitava.
I soldatini si fermavano
e voltavano.
Nonna, anche se non lo dava a vedere,
era più tranquilla. E felice.
Bruscamente,
tornava la calma.
Tutto al proprio posto.
Sì, la vita semplice
è tutto.

venerdì 12 novembre 2010

Piccoli sposi della terra di certo non decrescono: la giusta (dis)soluzione.

Ossia perché lo splatter televisivo necessita di succo di pomodoro biologico e l’ambientalismo ha bisogno di carne anche non fresca.



Vero. Il pianeta chiamava. Chiedendo aiuto. Comprensione. Implorandoci.
Cuore svuotato del suo rossore. Pattumiera di chimici e frasi fatte. Rivoluzione. Verde e verdura. Sussistere e concimare. Ecosistema e santa frugalità.
Che bravi. I.L.L.U.S.I.
Non ci riuscimmo.
In quel modo, per lo meno.
Cosa puoi aspettarti da un mondo che somiglia sempre più a una grinzosa digrignante zucca di fine Ottobre?
Tutto iniziò così.
Che solo alcuni risposero davvero alla voce. Quelli di cui non ci si può fidare.
E quando un gruppo di pazzi addirittura pianifica, ci si può aspettare di tutto. Anche che il tutto riesca.
Volontà e sregolatezza estreme è come se paradossalmente plasmassero un cuneo, geometria dal gorgo. Alla base c’è furore, mentre al vertice risiede la soluzione. Finale.
Gli eruditi ci hanno sempre ricordato che quando un manipolo di pochi prende l’iniziativa per rivoltare lo Stato di cose esistente inevitabilmente fallisce. O degenera.
Loro si aggrapparono a questa seconda opzione.
Erano come giovani sanguisughe, così piene di vita.
I «Coloni di Antilicia» o gli «Anti Licia Colò-ni». Come dir si voglia, un collettivo di ignoti.
Senza nomi ma alla ricerca di qualcuno che desse loro visibilità.
Complotti e cronaca spicciola hanno meccanismi in comune. Sono idee-modellino.
C’era bisogno del baby-costruttore. L’apprendista burattinaio. Il brizzolato. L’uomo-voce. Sì, proprio Lamberto.
Si presentarono a Saxa Rubra in grande stile.
Si stava parlando di Sara quando il gas dalle condutture entrò nello studio. Inodore, incolore, come l’acqua o una notizia, fresche e trascinanti. «Siamo in onda...»
Pochi colpi di tosse. In diretta. Seguiti da un attacco improvviso e diffuso di forfora e manicure estrema. Rughe facevano da coreografia. Pustole comparvero sulle tempie e sui colli di esperti e vallette. Le gengive del conduttore si ritirarono fino al cuoio capelluto. La sua faccia come un Emoticons.
Trucchi del mestiere? No.
I Coloni avevano sintetizzato un filtro. Qualcosa tipo papavero marcio e steroidi scaduti. Affloscia i tessuti ma fa ballare le onde cerebrali. Insomma ammazza e rimette al mondo.
Le icone cambiano, il lavoro continua.
Erano Zombi.
...
?!?
...
Pas mal. Sarebbe bastato cambiare di un tantino il titolo della trasmissione... “La vita indiretta”. Sì.
E se le news da succose diventano bavose ben venga.
Non è questo che volevate, gente? Scoprire il nostro interno senza meditare e le nostre interiora senza morire.
Perciò il loro progetto funzionò. Ci mostrò di che pasta siamo fatti: linfa, grugniti ed emozioni sdentate.
Gli ascolti scoppiarono quando nella seconda puntata alcuni complici del com-plot iniettarono la sostanza anche nei cadaveri delle vittime dei delitti trattati. I teatri del crimine tornarono in vita. Non morti a inseguire cacciatori di scoop. Inquadrature affilate. E dunque corpi mozzati. Vero cannibalismo mediatico.
Uno scpetàcolo.
La macchia di muffa umana si allargò in ogni direzione.
E Lamberto dedicò ben tre speciali ai casi più eclatanti.
Non possiamo risparmiarveli.


1. Titolo: La concorrenza sleale può risultare letale.
Voce fuori campo: Sposini.
Riprese: Testa, Colasangue e Destomacis.

Così senza pagarci i diritti provarono a riversare la corrente di bile nel loro canale. In prima serata, per giunta.
Il paroliere Bonolis presentò a gran voce la sfilata. Il menestrello Laurenti intanto se la rideva. Acuto.
Prima fazione: «Aaanoressiche di giorno!» Poi “di sera”, “in discoteca” e “a letto”. E vennero descritti femori che si accavallavano con maestria, menti doppio zero e schiene da far invidia a uno stegosauro.
«Invece di là, in qualità di sfidanti, signore e signori, pubblico de noantri, microcefali e maggiorate della quinta rete, ecco a voi... glii Zooombiii!» Ad ogni ora e in qualsiasi posizione. Barcollanti, striscianti e slinguazzanti.
La sfida ai punti fu apertissima fino alle battute finali: i due schieramenti erano troppo simili. Dunque sfida all’ultimo sangue. Perciò la spuntarono i morti viventi.
Andò che il pubblico non sapeva proprio chi votare. Quei tizi con gli occhi strabuzzati lì sulle gratinate erano l’ultimo baluardo dell’Ancien Régime televisivo e modaiolo. Volevano tettone e culi tondi vecchio stampo. Non quell’ossuto flaccidume.
E quindi si incazzarono di brutto. Iniziarono a fischiare e sbraitare. La tensione saliva. Lanciarono binocoli e poltroncine. Guerriglia da studio anziché da stadio. Le scenografie tremarono. Teatro di scontri. I banchi dei concorrenti vennero divelti. Lotta in classe più che di classe. I tempi sono cambiati.
Il gruppo pelle e ossa indietreggiò terrorizzato. La fazione zombie invece avanzava lentamente costole a terra. Come un esercito di lumache. Chiaramente con annessa scia di bava.
Gli indignati li evitavano o schiacciavano. Impazziti. Come Goti che non trovano gote paffute, ma solo resti di vite e viveri. Rossi di rabbia e di orgoglio rurale e capeggiati da Odoreacre, sfasciavano ogni cosa al loro passaggio.
Davano la caccia al duo di imbroglioni, al «Mignolo e Prof della Capitale».
Questi si erano rifugiati sulla scala di Madre Natura, ora debitamente e meccanicamente sollevata da terra. Erano al sicuro lassù. Ma, guardando in basso occhi famelici, uno piagnucolava con la sua voce all’elio di rimpiangere i tempi del pianobar, mentre l’altro urlava citazioni del pupazzo One, che a Bim Bum Bam gli aveva insegnato l’arte della conduzione, con l’intenzione di placare coscienze infantili.
Non funzionò.
I cavernicoli si fermarono sotto il ponte sospeso e si riunirono in breve concilio di guerra.
Mascherando la loro ira si allontanarono.
Fu allora che il capobranco guardò verso l’alto, con aria di sfida, i due presentatori appollaiati come due gattini spauriti in cima a un albero (in tal caso proprio all’albero della vita, sede di Madre Natura che se l’era svignata da un pezzo).
Odoreacre ghignò. Mentre smorfie di dolore distorsero i visi dei suoi commilitoni.
Lo sguardo degli assediati scese lentamente verso il basso.
E videro... oh Cristo... videro in faccia la loro fine.
Spruzzi di sangue e tartaro infetti alle caviglie: i truzzi si erano lasciati mordere!
Avevano accettato la mutazione, il progresso stagnante, la via melmosa.
Li avrebbero presi per fame. In tutti i sensi.
Cari telespettatori, che dire a questo punto se non: «CiaoCiao Darwin”. L’evoluzione ha preso una nuova piega. O meglio una nuova... ruga».


2. Titolo: Le notizie al fresco sono sempre dell'ultim'ora.
Voce: Sposini.
Servizio: solo Destomacis (Testa è caduta e Colasangue è rimasto a secco).

Nessuno crederebe che un carcere di massima sicurezza del Ventunesimo Secolo possa essere fatto ancora di pietra. Umido e tetro come i castelli dei cari vecchi film della Hammer.
Ma per le interviste giornaliere agli assassini serviva un luogo simile. I filmati risultano così più naturali. Pallidi. Sinceri.
L'atmosfera è tutto. Ve lo ripeterò fino alla nausea.
Così l'avevano messa nel sotterraneo più buio. La fossa.
Aveva capelli più corti. Stesso profilo acuto e occhi tra lo spaesato e lo spiritato. Mento leggermente sollevato. Camice. Bianco. Come la bara di suo figlio: per gli italiani Samuele, per lei il mio Samuele.
Stava marcendo lì sul fondo tra squittii, dolori e pazzie, estreme. Non capirete mai. Mai.
Il raptus non dà spiegazioni di sorta. Tutt'al più di sorte. Rapisce. E basta.
Ma gli scienziati del penitenziario volevano studiarla. La chiamano ancora scienza. Sì, chiamano "conoscenza" quel gioco macabro. Analizzavano le reazioni della donna a stimoli inferti. E infetti. Suggeriti dalle loro idee cognitive e cervellotiche o dall'invidia di altri ospiti di quell'hotel dell'orrore oppure dal pubblico a casa, giovane e attentissimo. Imparziale. Scientifico.
E' facendo pena che sconti la pena. Colpisci, attrai, vivifica con la morte e vincerai. Semplici regole paradossali da showbiz apotropaico.
Per questo l'edificio gotico riecheggiava di lamenti di bimbo, generati da vecchi grammofoni celati in nicchie murate. E per questo le guardie andavano in giro con il ciucciotto. E di notte pannolini svolazzavano tra le grate come ectoplasmi dal puzzo davvero infernale. Altre volte alla donna i giornalisti comunicavano che era stato trovato il vero assassino o che il piccolo Samuele era vivo, da qualche parte, e poi morto, vegeto, di nuovo ucciso e così via, in una spirale malata e senza fine.
Fino a quella sera. La svolta. La rivolta. Le grand final.
A mezzanotte iniziò a percepirsi un fruscio quasi uniforme sui pavimenti levigati dallo sgocciolio. Forse piedi nudi. O carcasse? Vermi? Mostri?
No. Forse proprio solo piedi nudi. Per ora.
Avanzavano e avanzavano. E con l'avvicinarsi il suono attutito diventava più lento. Ondeggiante. Tremendo.
Due occhi sgranati comparvero all'interno della fessura della porta blindata numero 9. Accanto campeggiava una parola in caratteri metallici e vittoriani: FRANZONI.
"Stanno venendo da mee-e?", contorse il collo. "Per mee-e?", pensò la donna. Se può dirsi pensare un miagolio instabile che affluisce alla scatola cranica. Mosse gli occhi rossi in orizzontale. Più volte.
La sua attenzione si posò infine sull'angolo a sinistra. In fondo.
Piedi scalzi. Come previsto.
Ma tanti piedi scalzi. In fila. E bordi di vesti bianche che lambivano le caviglie. Le lampade pallide illuminavano solo quella zona in basso. Le gambe si misero in moto verso la sua stanza.
Sembravano particolari di una processione dantesca. Pezzi di pastorelli diretti alla Grotta. Presepe tetro. Cittadini che si riuniscono in assemblea anche se sanno già chi è il Capro.
«Ti vogliamo fare un dono, numero 9. Hai vinto.»
Non capiva. Ombre la guardavano e lei non capiva.
Entrarono e la accerchiarono. Sacerdoti e anonimato. Affiliati e redentori.
Una esile figura le porse un gomitolo di fasce.
Lei, lenta, lo accolse in grembo senza fissarlo.
Poi, delicatamente, scostò un lembo e abbassò lo sguardo.
Si riconobbero subito.
E si mossero all'unisono.
Un mostriciattolo descuamato scattò come una serpe voodoo, mentre una strega sommersa riapparve arcuata da incubi lontani e impronunciabili.
Fu un abbraccio complice, vendicativo, indimenticabile.


3. Titolo: Z contro Z (cioè Zombi contro Zingari), lotta in coda all'umanità.
Speaker: Sposini.
N.B.: E' un servizio audio per mettere in risalto la voce del conduttore (e perchè Destomacis è stato trasferito a Scorie e poi espulso).

L'accampamento di tende dai colori sbiaditi era forse l'ultimo baluardo contro l'orda carnivora.
Sapevano che sarebbero stati attaccati perchè "carta canta" (e quelle delle loro veggenti suonano pure la fisarmonica).
Ma, «per la Madonna nera», sono pur sempre zingari! E niente dà loro preoccupazione, se non ha pilastri o guadagno fisso.
Così continuarono a far pascolare i cavalli intorno alla roccaforte (senza rocca né tantomeno forza) e a versare liquore ai bambini perchè dovevano -a maggior ragione in quella situazione- bruciare le tappe (e anche i residui di cibo nello stomaco per risultare meno appetitosi).
Il tutto mentre le colline circostanti si riempivano di esseri affamati e sbrodoloni.
Il tutto con una calma sonnolenta e furba.
Mantre il mare umanoide si chiudeva intorno all'isolotto di pezza, la comunità si riunì in cerchio. Confabularono per qualche minuto. Risero. Poi si abbracciarono, tutti. Le donne si scambiarono bracciali, amuleti e anelli e arruffarono i capelli dei figli. I mariti sculacciarono con maestria i sederi delle loro mogli e delle altre donne. I bambini arrotolarono i baffi dei nonni e simularono di estrarre i loro anziani denti d'oro. La loro eredità.
Dopodiché gli abitanti si guardarono e annuirono, diventando di colpo seri. Serissimi. Impassibili. Proprio come una comunità che ne ha viste tante ed è perciò rilassata, ma quando il vento cambia sa bene quello che deve fare.
Tre giovani si staccarono dal gruppo per sfrecciare in una delle tende centrali. Erano Harlias il letterato, con i suoi occhialetti d'oro, Màrya la sarta, con cinturone munito di fascette e fili policromatici, toppe e aghi di ogni tipo, e Zoran «El guante de Dios», per aver sfilato il borsello a Maradona in persona durante un funerale ai quartieri ispano-napoletani.
Gli altri intanto, madri, padri, vecchi, figli e figliastri, sfoderavano tutto il loro potenziale difensivo: spranghe, vecchie colt e doppiette, piedi di porco, naturalmente fruste da circo e persino manette, leopardate.
Crearono due ali, a imbuto. Al vertice alto stavano gli anziani, imbottiti di rakia come spugne; nelle retrovie donne e bambini presidiavano lo spiazzo davanti alla tenda centrale, protetta alle spalle da roulotte e carretti parcheggiati.
Lo scontro incominciò senza esitazioni. Né grida di battaglia che possano dirsi tali, cioè uniformi, tribali, codificate.
Le urla maggiori infatti furono quelle dei primi della disposizione (i vecchi), che, mentre iniziavano ad essere sbranati, fracassavano fiaschetti in testa agli zombi e sgocciolavano il contenuto nelle lingue pestifere, sentenziando, moribondi, alla rinfusa: "B'vììt, bevete, uagliòni. Questa è medicina. Così può essere ca vi passa il coléééra."
I giovani adulti intanto staccavano arti a cinghiate e, tra una frustata e l'altra, si pettinavano i capelli impomatati e sbraitavano rauchi: "Aé. Aé. Venite, venite pur avant. Ma ordinati, asinoni, più ordinàààt!"
Le donne aizzavano dal fondo del canale zingaro e, per far sì che i bambini avessero il tempo di ricaricare le fionde, lanciavano oggetti vari -ed eventuali-: lampade rococò, ferri di cavallo e alle ultime battute anche sfere di cristallo. Destino che rotola.
La calca avanzava e divorava.
Le linee difensive erano cortissime, quando tre orgogli della Nazione Rom corsero fuori dal tendone, si infilarono nell'insenatura comunitaria e... si gettarono con tutte le forze verso il nemico... scomparendo tra corpi deformi.
Fu l'ultimo gesto riconoscibile del gruppo nomade.
Il resto sono resti. I superstiti vennero maciullati. Tutti. Tra i cadaveri infatti sarebbe stato possibile riconoscere anche tre giovani gitani: un letterato, una sarta e un borsaiolo.
Ma allora quel loro gesto cosa significava? Era una fuga oppure un gesto libertario e scanzonato? Forse entrambe le cose. Era un atto di estremo eroismo e di inutile ribellione? Sì, forse sì, anche.
Ma tutto questo è ciò che ne trarrebbe una persona normale oppure uno storico delle tradizioni popolari.
Se invece fosse ancora in circolazione un vero Zingaro, un cuore zingaro, beh, in quel caso egli alzerebbe gli occhi all'orizzonte e tra quella massa informe di zombi vincitori ne individuerebbe uno, uno solo, a cui tre prodi dell'Ave Maria Nera hanno lasciato un ricordino nel loro stile. Il tizio verdastro ha infatti un pezzo di pelle nuova, cucito al culo: un portafogli logoro (dunque intonato al nuovo possessore) con all'interno una banconota falsa, qualche spicciolo e un biglietto, che dice:
«Un mondo alla rovescia non può trovarci impreparati. Piantatevelo in testa. Noi siamo i veggenti. Quelli che sanno... e si adattano, opponendosi. Saremo sempre l'altra faccia della medaglia. I mutanti in negativo. I Signor-Contrario. Perciò se siete voi quelli coperti di stracci, non possiamo di certo scucirvi il portafogli. No, noi agiamo di conseguenza. Regaliamo giochi di prestigio. Ci respingete, ma noi siamo l'attrazione. Ci chiamate ladri, ma il circo, i freaks, "Le tre carte" ve li abbiamo regalati noi. Siamo le fronde che muovendosi generano vento ma fanno credere a tutti che è il vento a muoverle. Vivremo così, in anticipo, incompresi. E non ci cambierete. Mai. Non ci sconfiggerete mai. Perchè voi siete la maggioranza, compatta. Mentre noi... noi siamo l'Imprevisto, la Variazione, il Capogiro, il Solitario giocato con carte truccate. Cari Non-Morti, noi dunque siamo gli Altri. Voi fregatevene pure delle nostre tende, delle nostre vite, dei balli a piedi nudi, del fascino della vita aperta... perchè intanto a fregarvi ci pensiamo noi. (firmato) Umano Gitano... "ché se la vita non ti regala niente, significa che vuole essere taccheggiata".


Eh sì, la scena del crepuscolo zombi (resa leggendaria dalla morte dei loro oppositori, romantica sì ma pur sempre morte morte, non morte provvisoria, cioè da non-morti) venne riproposta più volte sulla Prima Rete. Vista e rivista. E il mondo si adeguò al modello proposto. La popolazione in massa accettò il contagio.
E tutto si mescolò.
Molti credevano che gli zombi non si attaccassero tra di loro. Per un presunto patto viscerale. In realtà era un atteggiamento di comodo e quando divennero la stragrande maggioranza la fame si ritorse contro gli altri affamati.
Le strade brulicarono di assassini al rallenty. I campi divennero sede di cannibalismo civile.
E fu poltiglia.
Neanche i primi organizzatori, i Coloni, vennero risparmiati. Ancora una volta, ahimè, uguaglianza e terrore.
A un certo punto rimaneva ancora in piedi un'unica isola non imbrattata, al centro del mondo: lo Studio 1.
Ma anche quegli argini telestatali erano destinati a cedere. L'Italia che dopo sei secoli torna ai vertici del mondo, trashendendosi.
Nell'ultima puntata infatti Sposini non si limitò solo a incitare al Cadaverismo ma, per attirare e convincere i superstiti razionali e i passionali cronici (quindi le unità ancora categorizzabili e "vigili"), portò in studio due esche di qualità.
Gli umani, non potendo non guardare quell'ultimo spettacolo (anche solo per senso critico o entusiasmo da ultima puntata), si sarebbero convinti.
Così fu (organizzato).
Nell'emisfero sinistro dello studio, sotto una campana di vetro in stile "Lascia o raddoppia?" c'era Morgan, vivo e intento a dare spiegazioni puntigliose sulle ragioni sociali e artistiche per non essere zombizzati. La sua raucedine scoordinata e i suoi castelli di look e di giochi di parole arzigogolati furono un ottimo incentivo verso la Non-Morte. Cervelli circondati da decomposizione come possono accettare canzoni sull'art déco? Tra l'avanguardia e la demenza scelsero la seconda (che in realtà non era poi così distinta dalla prima). Il morbo "rallentaneuroni" costava meno di droghe sintetiche. Entrarono tutti a far parte del Popolo Violaceo. [Per inciso, non si seppe mai se Morgan divenne zombi -per opporsi alle sue opposizioni- oppure visse da non-zombi tra gli zombi travestito da zombi come Bill Murray in Zombieland, perchè da allora nessuno si accorse più di lui.]
Rimaneva da convincere solo gli irriducibili dell'altro Popolo. Quello della Libertà. Gli imitatori del Cavaliere, senza testa, dopo l'epidemia. I passionali. A questa funzione adempiva l'altro emisfero dello studio: quello destro, appunto. Lì era legata a una colonna la dea della tv. Nuda e vivissima. Biondona generosa in bella mostra. Con un branco di bestie umanoidi guinzagliate attorno a lei, distanti tanto da non poterla divorare ma tanto poco da arrivare con la punta della lingua viscida fino all'estremità di quei seni enormi. Solo lei infatti, la giunonica e sempreverde Mara Venier, poteva garantire il pienone. Tutti vollero far parte del copione. L'intero sovramondo satellitare, televisivo e telematico venne così colonizzato. [N.B.: zombizza neuroni e coglioni e il resto verrà di conseguenza.] Infatti Mara si concesse proprio a tutti, a turno. Morbida, democratica, da allora internazionalpopolare. Ultima icona immortale. Diva. Immortale, prima che le catene cedessero nello studio. E fuori. E ogni forma di vita aderisse al dharma sdentato. E l'identità diventasse appunto "senzadentità".
Venne il giorno. E tutti furono zombi.
La Terra tremò. Bruciò. Ma soprattutto barcollò sotto quell'avanzamento sciancato.
Eppure continuò a girare...: cicli.
Compatta eppure diversa, o meglio raccolta e differenziata...: ricicli.
Ecco. Ecco realizzato il sogno ecologista: essere parte integrante della natura.
Sorte macabra che si trasforma in rinascita circolante grazie a imprevisti e imprecisioni.
L'inesattezza principale, come detto, era quella di sostenere che i morti viventi risparmiassero i loro simili. Niente di più falso. E dunque la più grande fortuna, inaspettata, fu che, in mancanza di fazioni avverse, le carcasse semivive si sfamarono a vicenda.
In questo modo la decomposizione continua, seguita da incessanti alzate di pugni ossuti che spuntavano nuovamente dal sottosuolo e poco dopo venivano risotterrati (e così via), rese la terra humus planetario. E noi rinascemmo dal concime.
Pian piano, tra faide postanimalesche e aiuti a rimettersi in piedi e rivedere la luce al di fuori dei tumuli, tornò la normalità. Fummo come nuovi.
Il globo fu salvo. Noi pure. Sano e sacrosanto karma rigenerante.
Le previsioni della frangia ottimista dei guru verdi si avverarono. Il futuro profumò di religio banale ma efficace. Salvezza che sorge da un passato strumentalizzato dall'uso di libri sacri e trasmissioni televisive vaticane. La nuova escatologia si concretizzò, riaffermando ciò che in fondo in fondo già ci era stato detto da culti antichi:
all'apocalisse segue naturalmente la resurrezione della carne.
Fu davvero New Age.

domenica 19 settembre 2010

The Cove

What's behind that playbill
behind those vaudeville lights
shining intermittently on the brick wall
in a September night?

What's behind your eyes
behind that Vodka veil
letting transpire in places
solitude, discharge or,
scaring me,
suicide?

If the enlightened belfry clock strokes
break your explanations
if your face is warm
but your bottle green jacket
is watertightlipped
if there are no road lines
and you keep looking ahead
always ahead,
tell me:
what's inside of you?

The nothing can't be described.
And when you believe that poetic deaths intrigue you,
well, maybe you are already a step too far in there,
where even speleologists piss in their pants
there where the world was born and you laugh in the cradle
where bears and dolphins orbit above your young thoughts
telling you'll never be ballerina
never my wife nor rhymer,
always only an odd firefly.

Your on/off body shows the way
between cosy caverns and narrow docks
aquatic carnages and Bateaux Mouches.

But you
alone
deep down in your pupils
restrict yourself to burning
to burning dimly
in that lovely darkness.

venerdì 17 settembre 2010

AFREAKA

Pandraw mostrò il tesserino dei servizi segreti, che -legalmente modificato- aveva una valenza internazionale, ed entrò nella zona delimitata.
L'auto fucsia lo precedeva. Doveva restarle addosso.
Quel tipo nella macchina non era dei più pericolosi, ma se lo avevano spedito in Sudafrica (del Sud) per seguire quella pista un motivo doveva pur esserci. Ma lui non sapeva quale.
Scordatevi quegli agenti superintuitivi e saputelli. Sono leggende. Mitologia. Come le spie in gessato, con una sigaretta per dito e una biondona per braccio: saranno pur esistite, per carità, ma in un lontano e fumoso (appunto) passato. Non qui. Né tantomeno laggiù.
Pandraw non ne sapeva niente. Di niente. Nessun dossier. Zero.
Gli arrivava solo una comunicazione dai superiori, di media ogni tre ore. E significava quasi sempre prendere l'auto, pedinare e comunicare gli spostamenti.
Non aveva con sè nessun vestito elegante; né bionde a coccolarlo. Niente armi nè seduzione. Né chiaramente armi di seduzione. Solo un giubbotto antiproiettile -insopportabile al caldo- indossato sotto abiti da turista da safari a cui hanno rubato il portafogli fin dall'aeroporto.
Era più innocuo dei grassotteli di mezza età che giravano per strada con vesti arcobaleno e sorrisi appiccicosi per promuovere «la Coppa del mondo del riscatto».
Aveva "addirittura" un permesso per prendere una pistola al negozio d'armi più vicino in caso di necessità (ma la densità di gun stores in Sudafrica non è certo da New Mexico o roba del genere). Che gentilezza.
Si sentiva come un giocatore di football (americano) che si ritrova a dover giocare a lacrosse contro bambini e pensionati di domenica mattina al parco. E' un uomo finito. "Le motivazioni sono tutto", piagnucolerà a fine partita, come scusa per difendersi dalle gentili pacche sulla spalla che gli riserveranno i piccoli avversari. O farà qualche cazzata.
Ma tornando al kit da lavoro, gli appartenevano, infine, 37 anni portati male e un attaccamento al suo Paese di poco superiore alla media (per entrare nei Servizi è necessario, anche se di poco). Da quando era lì, davvero, davvero di poco.
Entrava così quella sera nell'area dello stadio dell'inaugurazione dei Mondiali di calcio e, con tutte quelle vuvuzelas che gli starnazzavano ai lati dei finestrini, pensò che era lì da due mesi ma già ne aveva fin sopra i capelli di quella nazione. Ora tutti così briosi e superficiali. Redenti. Lo depistavano.
Non poteva lavorare come si deve, svolgere la sua missione. Se quello era il Purgatorio, le sue chiappe avrebbero fatto bene a imparare l'Ave Maria (finanche in lingua afrikaans) se non volevano finire arrostite. L'Inferno era alle porte. Non è tanto il caldo che lo annuncia, quanto i colori. Riflettete. Se il Paradiso è la luce più luminosa che ci sia, che annulla ogni differenza e mostra la verità, il suo opposto non è il buio della fossa (no, quello è uno scenario troppo illogico e demodè, medievistico), ma il ritorno di tutti i colori in massa. Il caleidoscaos. E cosa c'è di più colorato delle vesti delle anziane del Sudafrica o dei loro strumenti o di quella dannata bandiera pacchiana usata pure come pannolino per i neonati? Per un tutore della legge nato negli Stati Uniti d'America subito dopo l'era delle contestazioni, che non ha mai visto un vero hippie in patria ma ne conserva l'archetipo (e il timore) dalle profondità dei pregiudizi uterini, un Sudafricano è la Bestia Moderna. Docile, raggiante, ma che ti annulla quando vuole. Che lo vogliate o no, il Diavolo è frikkettone. E all'inferno -ebbene sì- non prevalgono le fiamme, ma il fumo... di migliaia e migliaia di cannoni alla marija (povera Vergine Maria-juana).
Si scrollò di dosso la visione dell'aldilà che lo terrorizzava. Miraggi da inazione. Doveva darsi una svegliata.
Entrò nello stadio seguendo a distanza il tizio e la sua scorta.
Il prato si stava riempiendo di famiglie, gruppetti di ragazzine con corna verdi luminescenti da bancarella o giovanotti con cappelli multicolor e bande di bambini scalzi entrati di soppiatto o lasciati liberi di correre verso i maxischermi luminosi.
Vedendo tutta quella confusione, Pandraw non provò più terrore: l'ansia estatica che l'aveva avvolto pochi minuti prima era confluita dal cuore allo stomaco. E in quel momento il paladino federale desiderò solamente mangiare un cheeseburger multistrato: quella sì che è roba da calca. Terrena, americana. Purtroppo non c'erano (per lo meno nello stadio) locali dal nome invitante "Johannecheesburg".
Ma guardandosi intorno vide alla destra del palco un chioschetto fumante.
Man mano che si avvicinava, le sue occhiate verso la scorta del controllato internazionale si facevano sempre più rare. Nessuno lo avrebbe chiamato. Quel tipo e i suoi scagnozzi erano inoffensivi. Allora inspirò quegli odori inquietanti e speziati e, al suo turno, proruppe, non più timido: "Tre sosaties e tre vetkoek! Per cortesia e in fretta!".
Si mise a mangiare al bancone e iniziò a preferirli alla patriottica carne macinata. Che cosa gli stava accadendo? Era la strada verso la perdizione. O forse i suoni in sottofondo o la luce improvvisa dei fari laser che lo colpiva si armonizzavano bene con i sapori piccanti, ora spalmandoli ora acutizzandoli. In ogni caso quell'altalena da sensi di sensale lo cullava e gli faceva provare una sensazione di pace, risultando alquanto soporifera.
Pandraw rimase per dieci -o forse quindici- minuti con quell'espressione da genuino jamaicano sul volto, quando fu scosso da un trillo improvviso.
Si voltò di scatto e col gomito urtò la ricetrasmittente poggiata sulla mensola. L'aggeggio finì a terra. La cosa peggiore non fu la sua mossa goffa, ma che con la coda dell'occhio vide che durante la caduta lampeggiava il bottone rosso, quello delle emergenze, mai attivo fino a quel momento, e che ora era di nuovo spento: quel dannato trasmettitore spacciato per indistruttibile era davvero fuori uso. Cristo, quella luce non lampeggiava più. Una spia senza spia, assurdo! Proprio ora che gli stavano comunicando direttive urgenti, dopo giorni e giorni di calma piatta interrotta spesso solo da sbalzi termici.
Guardò il gruppo del sospetto e vide che parlottavano. Il cibo delizioso era finito.
Doveva assolutamente tornare a casa a prendere la ricetrasmittente di riserva per capire gli ordini. Ore di fila.
Oppure immaginare il da farsi e procurarsi un revolver. E sparare a quel ladro di polli. E farla finita con la monotonia di una missione dimessa.
Iniziativa da stress. Decise di ammazzarlo.
Ma come? Aveva quasi imparato a rilassarsi in quel buco d'afa.
Ma il dovere è il dovere. Perciò doveva improvvisarsi intelligente, da buona pedina dell'intelligence.
Aveva soldi con sè. Dalle sue parti li chiamano passepartout anche se non conoscono il francese.
Decise di corrompere una delle guardie all'ingresso per farsi dare una pistola.
Si allontanò. E incontrò subito due gorilla della security. Vestiti rosa confetto e giallo granita. Tanto per cambiare.
-Colleghi, sono un agente. Vorrei una pistola- e intanto mostrava loro con una mano il tesserino, con l'altra una mazzetta alta quattro dita. Non aveva tempo da perdere.
-Come capo? Non scherzare. Questa è nazione divenuta nuova. Niente corruzione. Per noi due-
-Ah, già, siete pur sempre due, anche se l'arma me la consegnerà uno solo. Mi pare giusto.- Raddoppiò l'offerta.
I due si guardarono in faccia, sorrisero platealmente.
Poi uno si passò la mano sui capelli cespugliosi, porse il calcio della pistola e prese la grana. Affare fatto.
Gli occhi di Pandraw si illuminarono. E non era né la soddisfazione per l'affare, né un rigurgito del cibo piccante. Finalmente dopo mesi poteva sforacchiare un bastardo di nemico. Istinto da bounty killer che aggredisce routine da centralinista.
Fece sedici passi in avanti e puntò verso il tizio. Tolse con il pollice la sicura. L'indice fa sempre il suo dovere a contatto con il grilletto.
A meno che non ti puntano nello stesso istante una pistola alla tempia.
-Non si fa così, fratello. Non ci hai fatto nemmeno spiegare. La calma è sacrosanta.-
Lo sbirro in rosa della sicurezza gli poteva far saltare la testa da un momento all'altro.
-Non ho detto che tu non può saldare i conti con quel tizio- proseguì. -Anche qui, in questo stadio. In mezzo a donne e bambini in festa. Abbiamo fatto un patto. E' affar tuo. Ma non ora. Ora è momento d'incanto e d'ascolto. Sta per salire sul palco il figlio del grande Ali Farka Touré. Ora suona il Mali, non il male-.
Una scritta azzurra lampeggiò nello schermo alle spalle di un uomo paffuto in tunica elegante e basco rosso e della sua band.
Vieux Farka Touré si poteva leggere.
E poi più in basso la parola Fafa era attorniata da stelline di pixel scintillanti. La riproduzione digitale tentava di rendere il suo valore magico. Empatia, solidarietà, legame: questo significa in maliano. Tutti in Africa lo sanno. Merito degli incantesimi, del rispetto, della musica.
Pandraw abbassò l'arma, imitato dalla Pantera Rosa.
Un assolo di chitarra paralizzante fu seguito da una voce limpida eppur cavernosa. Ispiegabile.
Un'orchestra marziana di rockers da bazaar e percussionisti di ossa preistoriche d'avanguardia prese per mano lo stadio.
Strani esseri per metà animali per metà marionette ballavano in ogni direzione. Ola di breakdance. Luminescenze e tric trac. Baci e sguardi all'orizzonte, dove il passato degli ominidi si incontra col futuro della Terza Età, degli Incontri del Terzo Tipo, del Terzo Mondo.
In mezzo a quelle facce attonite ma espressive Pandraw capì che non avrebbe più trovato il tizio che braccava.
Né più sarebbe tornato in patria.
Perchè quel posto era l'ombelico del mondo.
E quella gente non ostentava superficialità, ma tanto ricercata spensieratezza.
Non era il Paradiso né sarebbe stato l'Inferno.
E' l'Africa, fratello.
Sempre un po' più a Sud dei tuoi pensieri.



giovedì 16 settembre 2010

Little Proudhon & Baby Confiture






















Quando una volta lessi che l'arte moderna
parla dei sentimenti del singolo
ancora non ti conoscevo davvero
Non avevo assaporato i tuoi disegni paffuti
nè tradotto colonne e colonne
di una sola tua pagina
la tua epopea privata
gli amori i dolori gli oggetti d'infanzia
i viaggi di carta le nascite

Beh è giunta l'ora
che io rispetti la tua vita
perchè ogni tana è rifugio e frutto
Traccia pure
scrivi strappa scrivi
Le tue memorie di Plasmon
sono così dolci e sincere

Eppure non riesco proprio a capire
come mai nessuno
guardandoti nelle lentiggini e nei tuoi nei
ti abbia detto con calma
'Piccola
La proprietà è un furto
Chiusa nella tua casa delle bambole
stai dimenticando
gli odori della notte
gli schiaffi del destino
i futuri nativi
le piante di caffè
Per una buona volta
ferma i ricordi
e svolazza sul retro di una moto
dì addio ad apicoltura e fate modaiole
reagisci
mia cara'

Tu mi ignori
e ti lasci insultare in silenzio

Ma mi stupisci ogni volta che
in vestaglia e maturità
porti bacche e droghe
facendoci sentire selvaggiamente a casa

Scolari strabici o artisti sospesi?
Capisco che mi capisci
tra letture di edera
e rivoluzioni di vimini.

giovedì 6 maggio 2010

Il senso dei sensi

Una stretta di mano è sempre
abbinata a uno sguardo
Il sincronismo è tutto
Dice chi sei
e cosa vuoi

Mio nonno voleva tutti attorno a sè
per il gran saluto
perchè se quando torni dalla guerra
non c'è nessuno ad aspettarti
alla stazione
un modo per rifarti devi escogitarlo
alla nuova partenza
65 anni dopo

Attesa per un attimo
Piano perfetto
Tutte le persone care
ne hanno accarezzato
la fronte magra
tra gli occhi velati
e intenti a guardare avanti
Ma dove?

Poi il turno del nipote
Mi sono avvicinato a quel babbo, figlio, fratello
che per anni avevo atteso che mi rimproverasse
o sentito russare al piano di sopra
o visto soffrire, sincero
Gli ho preso la mano
quella mano piena di
macchie di vecchiaia e delicatezza
che cercava di colpire con il telecomando
scambiandole per mosche
quella mano che mi ha
guidato, spronato, rincorso,
urlato ma mai picchiato
quella mano che ora stringevo
con forza e mi diceva addio

Anche un lento lasciare può essere un lascito
Significa sentir scorrere l'esperienza
e permanere l'insegnamento
passare il testimone
eccola l'importanza di quella mano

E gli occhi dove guardavano?
Non lo so con esattezza
Ma non il vuoto
non in quel momento
Forse altri occhi
quelli stabiliti
"Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
"

Si vive della creazione
di quello sguardo personale
che insieme a mani gentili
rimane nostro.

martedì 30 marzo 2010

Pazienza, Zanna è tornato!

Nome: Massimo
Cognome: Zanardi
Nomignolo: 'Zanna'
Età: 24
Segni particolari: spigolosità e acutezza

















-"Eccheccristo, fa un freddo della madonna!!" Sergio Petrilli (detto 'Pietra') come al solito non c'ha una lira. Per farsi forza, ostenta pessime attestazioni di nichilismo.


-"Ehi, mammina, mi compreresti mica un cashmere nuovo?" Roberto Colasanti (o 'Colas'), ancora sdraiato accanto a una delle zitellacce che lo pagano in cambio di una botta e via, le ha appena spillato un maglioncino ottimista.


-"Inverno bestia." Zanardi e la sua concisa vaghezza. Fa un ultimo lungo tiro di spino, stringe il bavero grigio e avanza. Non si capiscono mai le sue frasi improvvise. Eppure sembra che in qualche modo incidano. Come se pungano in ogni caso qualcuno. Da qualche parte nel mondo. Non ha perso colpi. Con le folate che lo sferzano ai lati, affinandolo e affilandolo, stavolta è più che mai il lupo.

Appena contattato Pietra, gli dice che sta tornando in città. Gli comunica di voler sgranocchiare qualcosa al suo arrivo. In cambio una fiala pazzesca. Quando il piccolo Petrilli prova a frignare qualcosa, il telefono già bippa di nuovo. Se non troverà almeno una piada, come pegno fumeranno entrambi -invece della bomba- le ceneri del porcellino d'India di Pietra. Il nanetto ci tiene tantissimo.
Din-Drin! "Porca boiazza, Zanna, ho provato a dirtelo che non ho niente in frigo. Non lavoro da un pezzo. Ma tu non capisci. Ho cercato di rivendere addirittura il Vespino per avere un po' di contante, ma nessuno se lo piglia. Te lo volevo anticipare. Ma tu niente. Dai, su, sei cresciuto, sii clemente, eh, che dici, chiediamo a qualche vicino, he-he, ah, lo sapevo che avresti compreso, amicone" (da notare il linguaggio di Sergino: proprio maturato... da sbarbo a geppo!).
Tra i capelli del ciuffo gli occhi verde-marcio di Zanardi stanno già pulsando verso la ciotolina sigillata contenente le ceneri oriental-suine.
Le palpebre terrorizzate di Pietra picchiano veloci al ritmo del secondo Din-Drin! E' Colas. "Uè, fratelli. Ho portato un pranzetto da leccarsi i baffi. Gli avanzi della cenetta regale con la vecchia". Pietra, quasi in lacrime, abbraccia il suo idolo salvatore. Zanardi nel frattempo ha già una coscia di pollo tra le fauci. E Pietra:" Figooo! Dopo una settimana di fila per barboni, posso finalmente godermi un pranzetto decente. Auuuu!".
Zanna ha la testa calata sul vassoio.
Colasanti però con il solito garbo invita Sergino a comprare prima le cartine perchè il tabacchi chiuderà a momenti. Poi mangerà a volontà. Pietra, felice come una Pasqua, scende dal tabaccaio sotto casa.
Ma al suo ritorno, dopo tre minuti esatti, non trova nemmeno una briciola di quel ben di Dio. Zanna ha convinto Colas a cenare una seconda volta. Lo hanno fregato, come al solito. Ma Cristo: in 3 minuti, 4 vassoi! No, non è umanamente possibile. Guarda se hanno nascosto ravioli nella credenza o nel cesso, se hanno buttato agnello dalla finestra o nella tromba delle scale. Si ricorda che i suoi amici non sono umani. Sono bestie.
Vedendolo rientrare mogio mogio, Roberto si scusa con una pacca sulla spalla e dice: "Dai, non prendertela per uno scherzetto. La prossima paga della Chiavecchia la spedisco direttamente a te".
Zanna aggiunge: "Su, su, pensa che a stomaco vuoto ti piglia anche meglio: pronto con le cartine? Ci facciamo."
Solo queste ultime due parole strappano un sorriso al mitico Petrilli.
Dopo la svampa, penserà di certo: "Sentivo la mancanza degli amici del liceo. Colas forse mi darà addirittura un po' di soldi. Ma Zanna è Zanna. Come sempre il migliore. Ha mantenuto la promessa. Questa è una fumata coi fiocchi. La migliore, hi-hi, giuro, davvero, la migliore."
Per un pezzo non saprà che Massimo Zanardi detto Zanna questa sera stessa si scoperà la sua Mirella, la sua "Pietrina focaia" (come il corto Petrilli la chiama con gli occhi a cuoricino). E che Zanna non collasserà strafatto come lui e Colas perchè preferirà tirare solo un po' di quella roba. Unico a conoscerne la provenienza:...
...una ciotolina de-sigillata contenente comunque resti.
Di un pasto tra amici.
Non più di un dolce roditore, ormai aspirato.

lunedì 22 febbraio 2010

Dormi-Veglia

"E la notte ti preserva dalla mia intimità"

Sarà una delle più belle dormite della mia vita
Sprofondare nel letto
chiudendo pian piano gli occhi all'ingiù
E poi sognare di cercarti
guardando intorno lentamente nella semioscurità
Credere di sentirti seduta sul davanzale interno della finestra
bianca e socchiusa
Il tuo profilo con la testa tra le mani
che ti renderà più matura
Un alone debole ti illuminerà da fuori
Mi guarderai ferma ancora un attimo
perchè saprai che sarà ora di andare
come sempre
anche se il mio respiro sul tuo cuscino ti fa sentire a casa
Seguirai un percorso tra i collage
le videocassette e la scatola con i gioielli arabeggianti
verso quell'odore particolare
come di zuccheri bruciati
Le tue calze bicolori accarezzeranno il parquet
e la porta cigolerà
Ti volterai e guardandomi penserai
a che espressione potrebbero avere i nostri bambini
Penserai che potresti abbracciarmi
e dividere con me le lenzuola fino alle spalle
e organizzare con me viaggi esotici in India
a Belgrado o in fumerie d'oppio dietro l'angolo
Sarai per la prima volta consapevole che
mi vuoi più che bene
e che non ti lascerò mai andare senza un tentativo di matrimonio
e tante urla
Così
mandandomi un bacio
chiuderai la porta piano e nell'ombra
E io non capirò
se sarai rimasta dentro la nostra stanza.


Marlene Kuntz NOTTE

beniamino catena | MySpace Video

venerdì 5 febbraio 2010

Smiling Valkyries, Hypnotic Inspirations: I Am Not Finished Yet

Pregate

Ora stacco col resto per dedicarmi solo a voi.
Ma possibile che devo per forza morire per vedervi tutte insieme,
a me,
in cerchio?
Non possiamo trovare un compromesso,
qualcosa di più terra terra che ci tenga uniti per un po’?
Devo dedicarmi al lavoro, lo so.
Diventare impegno vivente.
Per essere valoroso.
Muovermi, raccogliere e distribuire.
E’ giusto e lo farò.
Non senza la vostra gentilezza.
Solo con voi, ispirazioni,
tenteremo
l’onore terreno nell’arte.
Con le vostre puledre alate posatevi sul Parnaso
vicine e ammaliatrici.
Oh regalatevi a me e mi sdebiterò:
vi riporterò alle beatitudini, più cariche.
Eccovi sulla scena:
Totilla,
Madamanatura,
Fantasidea,
America,
Eupalla,
Anarchia,
Progenie,
Alchimia,
Emimì
stringetevi e trasformiamo l’abisso in potenzialità,
questa esistenza in una festa.
Ditemi, mie amate
anime stellate: accetterete tutto me stesso?
Ci formeremo insieme, io esisto per voi.
Avvicinatevi così vi bacio tutte.
Finalmente la nostra sala è piena, benvenute.
Si balla.
Non più Valhalla.
Siete Voi la mia Gioia.
Siete Voi la mia Gloria.
Vale atque Ave,

Circolo della Vita

Gif Created on Make A Gif

Lo spirito della palestra

La ragazza è sveglia e ben fatta. Ha un completino nuovo e si dà da fare. Oggi ha eseguito 4 serie da 12 movimenti con la Leg Curl, 32 ripetizioni per i glutei, qualche esercizio per le braccia e ben 37 minuti tra Cyclette e Tapis Roulant. Ora è seduta sulla panca. Si riposa o riflette. Forse vuole piangere. E’ in formissima e quei tipi palestrati le piacciono. Ma non riesce a scambiare due chiacchiere con loro. Sono già parecchie volte che chiede aiuto all’istruttore per attaccar discorso. Ma quello le guarda solo il sedere, tondo e bello. Non c’è verso di farli ragionare. Le sue fantasie le impongono di richiedere un minimo di conversazione prima di andare a letto o sul sedile posteriore. Niente cenette, ma almeno qualche scambio di battute. L’istinto materno le dice che dovrebbe correggerli. Nell’impossibilità di impartire loro una vera e propria educazione sentimentale sta pensando di doverli per lo meno stimolare. Si accontenterebbe di qualche commento sentito, fatto anche alle spalle -non al culo. Frasi di incitamento o di invidia, gelosia o persino scherno e minacce, purché più articolate dei mugugni da sforzo. Basta poco per farla felice. E’ decisa ad esserlo. Si guarda attorno nella Sala pesi e cardiofitness. Subito individua la cavia grazie a cui sperimentare il suo nuovo approccio. Un vecchietto infatti sta pedalando in scioltezza «sullo Spinning» all’angolo. Lei si avvicina e si mette a fare stretching con il fondoschiena rivolto verso di lui, a pochi centimetri dall’asta della bici. Due uomini simili a Mastro Lindo e Johnny Bravo iniziano a osservarla. Potrebbe funzionare. Lei allora fa finta di non saper regolare la panca smontabile per i dorsali e chiede aiuto al vecchio che ha finito il suo esercizio. Quello gentilmente la accontenta. E lei coglie la palla al balzo per attaccar bottone: “Signore, che dobbiamo fare pur di stare in forma, eh!?... Ma anche lei si mantiene bene: complimenti!”. Conclude così la fase dell’aggancio, cercando di tener dentro la risatina naturale nell’osservare quei bicipiti flaccidi. “In realtà io non cerco di restare in forma” risponde il signore, che continua dicendo: “Io sto solo scaricando tutte le mie energie in eccesso”. E lei: “Perché? Si stanca molto durante il giorno? Che lavoro fa?”. “No”, dice l’uomo alla ragazza, “non ha capito. Io sono un catalizzatore di ectoplasma”. “Un «cosa»?”, le scappa a voce alta e stridula. I due Macho Man stanno di certo già commentando la dinamica di quell’incontro. E forse i loro neuroni danno segni di reazione. La vedono attenta e stanno meditando un piano semplificato per conservare la leadership delle sue attenzioni. Il vecchiotto intanto le dà una spiegazione en passant: “E’ una figura meno abusata ed estemporanea del medium. Più che altro una passione continua. Ci nutriamo di contatti”. Lei appare confusa e si piega per ascoltare o svenire; comunque mostrando la scollatura abbondante. I due voyeur fremono di nervosismo. Lei non sa se continuare con la sua strategia o osservare per un altro po’ quell’essere così assurdo e distaccato. Le sembra che il sudore di lui esca come vapore giallo-verdastro, come anime, illuminazioni brodose: è forse in preda ad allucinazioni da sforzo? Viene ridestata dall’intervento dei salvatori palestrati. Hanno finalmente pensato a qualcosa. Fanno un fischio a un altro loro simile e propongono al vecchio una sfida. Sollevamento pesi. Per schiacciarlo. Quello si gira e, senza guardarli, accetta! “Ma dovete sapere che non state sfidando me” sono le sue parole pacate e inascoltate, prima dell’inizio dell’esibizione. 160 Kg il primo. 108 il secondo, che si stira pure. 180 ne solleva il terzo, la cui massa sprizza orgoglio da supereroe. Si girano verso l’anziano, pronti a deriderlo, tutti. Il capobranco immagina la ragazza nuda sotto la doccia che lo incorona vincitore. Il signore, con calma olimpica, svuota due bilancieri; poi si sdraia a terra incastrandone uno tra i piedi e tenendo l’altro con le braccia, mentre i tre sogghignano. La ragazza rimane distante, perplessa. Il vecchio fa tre sospiri, poi inizia a ruotare dolcemente sul dorso, come una tartaruga rovesciata ma pur sempre saggia. Gli sghignazzi salgono di tono. Poi in un baleno cambia tutto. Le immagini sembrano confuse, ma non lo sono. Repentinamente -ma non bruscamente- l’uomo allunga gli arti e di conseguenza le aste metalliche, fino ad incastrarle nelle macchine della sala. Fa pressione e quei marchingegni si muovono. Si inclinano cigolanti e vanno a toccare le altre attrezzature. Un effetto domino circolare invade la stanza. Il perno centrale umanoide controlla il movimento di tutti i macchinari che si smontano o srotolano. Le corde di ferro si avvolgono ai piedi dei ginnasti e ai loro bilancieri carichi, tutti sollevati e resi parte della giostra. Il vecchio è grigio, fluorescente, serio. Occhi chiusi, tendini lassi e furore divino. Tutto lo stanzone vive, forse il mondo, grazie a stimoli terreni e forze dell’aldilà. Magia, illusione, prova. La bella indietreggia, piazzandosi dietro la vetrata immancabile in ogni palestra. Osserva a bocca aperta quello spettacolo, mentre le ritornano alla mente piccoli flash carpiti anni addietro nelle lezioni al Liceo Scientifico. L’insegnante farneticava riguardo a miraggi chiamati Anime, Intelletti Agenti, Forme, Eidola, Demoni. Ora le appaiono dinanzi in tutto il loro fulgore amorfo: i percorsi di Plotino e dei suoi genuini infedeli seguaci, le dispute tra savi medievali, le interpretazioni arabe che si concatenano all’infinito, le rigogliose accezioni del Rinascimento. Esalazioni, potenze anti-peso, estasi. Sorride pienamente. Si accoccola contro il vetro e lo bacia delicatamente. Sì, adesso ne è certa. Questa è la persona adatta a farle provare l’amore.

sabato 30 gennaio 2010

Brotherhood of the scorched mask




I’ve attended absurd things.
-Among low helpless houses-
Why do you commit damage, sparks,
limpid shadows and scarecrows?
I’ve seen exaggerated laughs and sulking faces,
jumble and bravados.
I’ve taken part in
Even if you’re insane
Or maybe for this reason, my fellows.
Intrusive youth of an unstable generation
You’re so stupid
That’s why I esteem you
And I envy you…
So young.
Exhibitionists, pyromaniacs
Burn, burn
with me.
Because if the blood boils,
either love is transfusion
or you’ll evaporate to the tunes of an unforgettable night.



sabato 16 gennaio 2010

Bedside Ways























Almeno tu sei familiare?

Una casa in inverno è più di una semplice casa. E’ tua madre. Non abbandonarla mai.

Giulio aprì di un tantino la porta per osservare la situazione. Tutto era silenzioso. Solo tre punti luce descrivevano la sua villetta.
1. Il fascio che fuoriusciva dalla sua cameretta: proiettava striature sulla porta del bagno di sopra. Di notte la ringhiera in legno delle scale era meno sicura. Sembrava deformarsi in alcuni punti, insidie di tenebra. Si sarebbe tenuto accanto alla parete, se proprio fosse sceso.
2. La nuvoletta di luce in fondo alla rampa, di un rosso cupo come un paiolo di castagne rosolate. Era la sua meta: il caminetto acceso, ma per poco, ormai. Era tardi anche per i carboni quella notte.
Punto illuminato numero 3: la finestrella accanto alla sua porta. Filtrava poca luce da lì con tutta quella neve appesa alla grondaia. Ma quel poco bastava a rendere il tutto meno accogliente. Gli sembrava l’occhio di una civetta, neutrale e statico.
Si innervosì e fece cigolare la maniglia, Giulio. Lo scricchiolio sembrò per davvero la civetta, giunta dall’Inferno a fare la spia. Non voleva essere beccato, ma ormai gli scappava anche la pipì. E avevano un solo bagno, di sotto. Doveva scendere. Una scala alla volta. Sembravano sempre più alte. La luce dietro l’angolo fa paura anche a nove anni.
Appena posò il calzino sul parquet del soggiorno, si appoggiò alla parete divisoria e si sporse lentamente. Vide un’ombra e il suo cuore vacillò. Ma era solo Berta, che, sentendosi osservata, era corsa sotto il divano, nella sua cuccetta di cartone. Per il resto nessun segnale. Il tremolio del fuoco sulle ombre era costante. Prese ad avanzare verso la fonte di luce. Tra la credenza e il divano, con il pigiama calante e le gambe semiaperte per la necessità di andare in bagno, trascinava i passi: un piccolo cowboy che cerca il duello al tramonto, sole in faccia e ombra alle spalle.
Guardò, con una piroetta su sé stesso, in giro. L’atmosfera lo avvolgeva. Sembrava che grandi mani nere gli si chiudessero attorno. Aveva fretta.
Allora si mosse. Mise una mano sulla spalliera della poltroncina e la tirò a sé, scattando contemporaneamente con un balzo in avanti, nel punto prestabilito. Guardò ai suoi piedi…
Il centro del tappetino era vuoto. Le sue orbite rotearono un po’ su e giù; si aprivano di scatto e serravano, incredule. Era vuoto, oh no, no, era vuoto, era vuoto!
Neanche quell’anno si era presentato. Niente regali. Niente feste.
Era il 25 dicembre 1999. E un fluido caldo e sincero disegnò una chiazza sul tappeto, prendendo il posto di sogni infantili.

La ricerca iniziò così.
Si può tollerare una svista una volta. Alla seconda è noncuranza. E un atto di indifferenza a Natale, per giunta ad opera di colui che rappresenta il Natale in persona, non è come negli altri giorni: è inaccettabile.
Un vero affronto.
Come quando hai l’albero in casa e ogni giorno cade una pallina, un pacchettino o un po’ di pioggia dorata. E tu la riappendi o prendi la paletta per pulire, rimproveri il gatto perché stia più attento e dai la colpa agli spifferi. E’ normale. Succede. Quando però cade la punta più bella del vicinato, che tu hai piazzato sull’albero dopo tre ore di sforzi, rispolverando il seggiolone di quando eri piccolo, usando un appendiabiti modificato (da te) e tecniche circensi apparentemente sconosciute,… beh, quando cade quella stramaledetta incantevole stella appuntita è diverso. Hai due sole possibilità. O tagli l’albero con la sega del nonno. O lanci i pezzi rimanenti sulla sommità del tronco, sperando che si reggano sui rametti superiori, per poi spacciarli con nonchalance per novità della casa: minimeteoriti più polvere di stelle.
Giulio ebbe un atteggiamento simile dopo il fattaccio di Natale: stava per affiggere a scuola manifesti pseudo-satanici con un Santa Claus imbottito di tritolo o in alternativa pensava di costruire un pacco con i risparmi dell’anno da regalarsi da sé sotto l’albero il Natale seguente.
Le due possibilità di cui si parlava prima con l’esempio dell’albero: rabbia o reazione molliccia di ripiego (anche detta reazione “tanto per”).
Niente perché. Non vedeva altre possibilità. Ed era deciso ad odiare quella festa tutta preparativi e quell’omone satollo e ipocrita.
Fu allora che fece la differenza Mattia. Il genio. Il fuoriclasse. La merda.
Mattia era un compagno di classe di Giulio. Il primo della classe. Ma non il cocco dei professori col cravattino. Non quello che studia tanto e viene spronato ed esaltato dai genitori papponi. E che si presenta col naso all’insù ai quiz televisivi. No. Beh, decisamente no. Era davvero un qualcosa di indescrivibile. Era di un altro pianeta. Un mostro, in tutti i sensi. Aveva otto anni e leggeva Céline, Nabokov e ultimamente aveva parlato anche di un certo Zizek. Niente di strano nella cerchia dei genietti da spot. La cosa eccezionale era che a queste superdoti si abbinava in lui un fisico da pilone da rugby, un intuito degno del miglior Philip Marlowe e un carattere da provocatore nato, qualcosa tipo Cassano ai tempi delle giovanili. Riuscite a immaginare un Cassano intelligentissimo, determinato e indistruttibile? No? Infatti era una roba da non crederci.
E gli insegnanti novelli non ci credevano. Prima di entrare per la prima volta in quella Terza H ironizzavano su quel mito: “Sì, ok, ma che sarà mai? Un ragazzotto intelligente che ha bisogno di regole per migliorare ancora” oppure “Rappresenterà uno stimolo in più per noi professori” o, riferendosi alle sue umili condizioni economiche, dicevano “Deve essere come quei calciatori nigeriani che abbassano la loro età per emergere: noi, come la disciplinare, indagheremo e lo faremo sospendere”.
Niente di più avventato. Sfottuti, continuamente corretti, umiliati, erano costretti dopo poco o ad andarsene o a lasciare le redini della classe in mano al piccolo despota. Mattia aveva spedito tre maestri dallo psicologo, per mancanza di autostima in loro stessi; un’altra aveva provato a schiaffeggiarlo ed era stata presa per i polsi, immobilizzata dall’alunno e poi anche condannata dal Consiglio d’Istituto. Il vecchio preside, esperto, si fingeva assente quando lo chiamavano da quella classe.
La mattina di gennaio, alla riapertura delle scuole, durante l’ora di educazione motoria, proprio Mattia passò in rassegna i compagni che facevano lo skip e domandò: “Allora, amichetti, che cosa avete ricevuto da Babbo Natale?”. Fece un sorrisetto che avvalorava la sua già celebre tesi dell’inesistenza del nonno rosso e grasso e continuò: “Tu, Michel? La videocassetta del mondiale del 1998 o quella dell’ ‘82? Dovrai pur capire se sei italiano o francese? E’ una necessità per te sapere qual è la tua natura. O vuoi seguire il mio esempio di una riflessione sulle caratteristiche comuni a tutte le lingue, dalle quali si ricaverebbero zone morali su cui battere il chiodo in una visione transculturale? Ma forse tu non sei adatto a battere il chiodo…”, disse Mattia e guardò Letizia la biondina, che arrossì per l’emozione.
Michel stette un attimo in silenzio, poi parlò a testa bassa: “Ho ricevuto un puzzle dei Puffi”.
E Mattia: “Non male. Sono blu chiaro: non scontenti né i tifosi italiani né quelli francesi. E’ un primo passo per il confronto. Braaaavo!” e gli diede un pizzicotto sulla guancia.
“E tu, Gigi, quest’anno babbà, torrone e’ mammà o pastiera anticipata?”
Il piccolo pingue napoletano si fece rosso rosso e dopo poco sfiatò a denti stretti: “Chella zompaper’t e’ zieta, «Ainsctaign» do’ ‘o cazz!”
Ma Mattia era passato oltre e non lo aveva neppure ascoltato. O aveva fatto finta di non udirlo. A volte non li teneva in nessun conto, i compagni; e tantomeno le loro risposte. Erano troppo, troppo, più in basso. Li usava per divertirsi, ma da un pezzo preferiva concentrarsi sui professori. Era stato magnanimo. E comunque quel giorno doveva finire il giro-ispezione.
Passò agli ultimi tre, gli amiconi: Marcello, l’unico più povero di lui; Aldo, detto Alito per le mentine che ingurgitava di continuo per piacere alle bimbe; e chiaramente Giulio.
Anche con i primi due fu un piccolo show (per Mattia), ma la svolta si ebbe con Giulio.
Mattia si presentò così: “He-he, allora, è comodo?”
“Cosa?”
“Il tuo nuovo regalo!”
“Il m-mio nuovo reg-alo, mm…”
“Beh, sì”
“E tu come fai a sapere cos’è?”
“Non ci vuole un genio: è lo stesso ogni anno.”
Giulio iniziava ad innervosirsi perché sospettava che tutti sapessero che era rimasto a mani vuote.
“No, no, è diverso quest’anno”, provò a uscirne, Giulio.
“Ah, sei diventato grande” sentenziò Mattia con la bocca all’insù.
Giulio ora sapeva che avevano scoperto che non riceveva regali.
Disse un “sì” a bassa voce.
Ma Mattia infierì: “Non mentire, hai solo ricevuto un nuovo modello.”
Giulio, allora, confuso e nervoso, fece una smorfia e scoppiò a piangere a dirotto, proprio mentre Mattia ripeteva: “Un nuovo modello di...... vasetto Chiiccooo!”.
Tutti scoppiarono a ridere, pensando all’incontinenza di Giulio, ma anche e soprattutto per compiacere il boss.
Il piccolo in lacrime urlò: “Bugie, bugieee! Non è vero! Io sono due Natali che non ricevo proprio regali!”
Al che gli amici si fecero seri e impietositi; e Mattia, attento, chiese: “Parli sul serio?”
“Sì, giuro, giuro, non ne posso più, Babbo Natale mi ha tradito, non mi apprezza, non si degna di farmi visita: noooo-ho-hooo!” Singhiozzoni e brividi. Era un bimbo davvero distrutto.
Mattia, con aspetto serioso, si fece più vicino. Ma non disse cose tipo “Cazzate, il Babbo non esiste”, bensì “Mm, interessante… Dovremmo indagare. Chissà perché l’Egalitario ti ha trascurato. Bah… Dunque... Sentite, perché non ci mettiamo all’opera, io, tu e i tuoi due fidati?” Accennava a Marcello e Aldo. Di sicuro desiderava gironzolare a capo di un drappello, per poi prenderli in giro, piantarli in asso e riprenderli in giro. Ma Giulio non aveva altra scelta: doveva ubbidire. E poi quello era l’unico modo per dare un’occhiata alla situazione e cercare di capire. Era quello che voleva. La sua unica pista. Allora si asciugò il naso e annuì.
Per il dicembre seguente sarebbero stati pronti; preparati per il gioco o beffa (nei pensieri di Mattia), per la scoperta (nelle speranze di Giulio), dopo un anno di indagini.
E fu così. I tre pards raccolsero testimonianze e storielle varie e le consegnarono di volta in volta a Mattia, che aprì un fascicolo sul caso. Pensava Giulio che, grazie alle abilità del suo capo, quella non sarebbe stata la solita indaginetta alla Cartoon Network, tipo su chi ha rapito Santa Claus o robaccia del genere. E forse non si sbagliava. Grazie a lui, i tre amici avrebbero saputo finalmente non dove, quando o perché arriva, ma chi cazzo è Babbo Natale!
Hoh!
La ricerca era finalmente iniziata. Il patto era sancito. E soprattutto il monito invernale infranto: erano usciti dalle loro accoglienti casucce (o per Marcello sagrestia/orfanotrofio dove viveva -accogliente nel senso più stretto del termine-) per calcare un territorio a loro estraneo. Per entrare nel regno della neve alta, dei pungitopi, della notte senza sonno. La regione bianca e opaca appartenente a colui che cercavano.
Le informazioni pian piano aumentarono.
Il fascicolo prevedeva un diario per le scoperte fatte giorno per giorno. [La sezione estiva, tra l’altro, era fenomenale: Mattia aggiungeva finanche bozzetti con l’espressione degli intervistati, che in ciabatte, camicia hawaiana e col ghiacciolo in mano si sentivano domandare informazioni polari in pieno sole. Roba da svitati.]
In più erano allegate pagine più tecniche e culturalmente prestigiose.
C’era il raccoglitore con i ritagli di giornali e di poesie su San Nicola e S. Claus, tanto per avere un’idea di ciò che pensavano sull’argomento persino poeti e giornalisti. Anche se erano le categorie disinformate per eccellenza -perché lontane dai rumors di strada-, un’impressione è sempre una testimonianza. E la firma importante conta non poco.
Posta a un gradino d’importanza superiore, c’era la parola del prete cittadino, che se nominava di rado Santa Claus voleva di certo dire che le sue informazioni valevano. Non era un santo qualunque. Dalle parole del parroco avevano appreso come la giurisdizione di Babbo, fatta di cuore grande e paritario, a dicembre si espandeva e il prode ciccione scendeva in campo da secoli accanto alla Triade divina. Anzi, nella notte tra il 24 e il 25, sembrava quasi scavalcare in graduatoria i tre pilastri e prendere le redini dell’Impero Universale. Temporaneamente. Come un “tiranno buono” che si fa il mazzo per il bene della comunità. Perché ha le spalle larghe. E merita rispetto. Sì, rispetto: quello iniziavano a capirlo anche loro. Tranne Giulio: se non hai ricevuto regali per due Natali di seguito, non c’è pulpito, storiella o morale paternalistica che tenga, anche se addolcita da parabole ingegnose. Però ciò che anche il bambino truffato condivideva era l’idea che Santa Claus fosse un pezzo grosso, in tutti i sensi. Un intoccabile. Non sarebbe stato facile rintracciarlo.
Loro, come reazione, intensificarono le indagini, chiedendo, leggendo e ragionando. La sezione più importante per Mattia, cioè quella storico-letteraria, divenne maestosa, con centinaia e centinaia di pagine rubate al giornalaio o in biblioteca, lette e sottolineate. Esaminarono origini ed evoluzione del mito, ricostruendo i viaggi del Vecchio in ogni paese del mondo e facendo i conti con colonie olandesi, variazioni nel look, dimore collocate in zone glaciali, folletti pazzoidi ma ligi al dovere, divinità orbe, Coca Cola e complottismi, letterine e canzoncine scritte con i piedi, odore di incenso e brezza d’alta quota, gote rosse, sacchi di juta e colori, colori, colori.
Pian piano i bimbi sembravano lasciarsi cullare da queste fantasie. Forse dovevano credere e basta? Dovevano dire sì e pregare e fare i buoni? Anche se il padre di Alito aveva sospettato che sua moglie lo tradisse a lume di camino e da allora, come ritorsione, aveva piazzato in sala un neon enorme che faceva sembrare gli addobbi natalizi insegne da pub? Anche se Mattia non aveva l’umiltà di fare il presepe? Sebbene Marcello potesse avere un albero natalizio (semispoglio) solo in quanto inquilino della chiesa, nel ricovero per poveri? E anche se Giulio non riceveva regali da ben due anni senza motivazioni e senza poter discutere del problema con mamma e papà perché non lo ascoltavano, impegnati e veloci?
Sì, forse dovevano proprio credere e basta. Perché? Perché era bello. Perché leggere più volte il Canto di Natale di Dickens, tutti insieme nel loro scantinato-dipartimento, li faceva sentire uniti, uguali, sereni. Persino Mattia concedeva loro di parlare e a volte li ascoltava addirittura. Alito non mangiava mentine. Marcello non inseriva nervosamente il dito nel giubbotto bucato. Giulio non si pisciava nei calzoni. E poi uscivano al freddo e prima di tornare a dormire sfoderavano aneddoti natalizi, aggiornamenti, barzellette spinte su Babbo Natale, che anche se stupide e ripetute li facevano ridere.
E giunto ormai dicembre continuarono la caccia non più (tanto) per sapere la verità, quanto solo per vivere un altro po’ quell’atmosfera magica, che li rendeva felici come non mai.
Però l’indagine, purtroppo, è una tipologia di ragionamento spietata: deve raggiungere una conclusione. E loro seguirono il percorso quasi senza rendersene conto.
Un pomeriggio trovarono Mattia nella loro base, seduto accanto a un piccolo falò. Non voleva raccontare folklore o storie esotiche come al solito. Aveva bruciato il materiale. E lasciato in vita solo gli indizi migliori. Aveva fatto una cernita. Gli altri parvero d’accordo.
Restavano tre strade da percorrere:
1) andare a fare domande al ciccione barbuto che viveva nel cartone in Via dei Tigli e rispecchiava in pieno l’iconografia natalizia: “Forse ha una doppia vita tipo i supereroi”, disse Alito;
2) affidarsi alla leggenda che pareva loro migliore: quella di San Nicola di Mira (poi di Bari), patrono e donatore, e quindi recarsi al Duomo in Puglia per ricavare tracce dal passato;
3) andare ai grandi magazzini e fare una fila chilometrica prendendo a cazzotti i bambini rivali -da vera gang affiatata- per abbracciare infine il panzone sulla seggiola rialzata e, grazie ad un veloce questionario, vedere se era il Babbo Natale originale o una trovata pubblicitaria.
La seconda pensata fu scartata immediatamente: l’idea di andare a rispolverare reliquie incrostate di certo non si accordava con la loro idea della festività natalizia. Era un’azione da Halloween. Contrastava di netto con l’atmosfera tanto amata del Santo Natale.
Allora presero in considerazione le due rimanenti possibilità. Ma una volta incontrato Pelo il barbone, il suo puzzo di alcol scartò in un baleno il pensiero che quel tipo potesse avere una seconda identità. Con tutto quello scaldabudella in corpo, se fosse stato lui Babbo Natale, al primo caminetto ancora leggermente acceso in cui si fosse intrufolato avrebbe fatto il botto! No. No. Di certo non era lui.
Rimaneva la pista del supermercato. Pensare che il vero Babbo stesse coccolando bimbi nella loro cittadina e non altrove non era il massimo. Ma perché scartarla? Non si sa mai. In fondo quella città era un posto discreto. Nessuno si faceva gli affari altrui. Eccetto loro quattro, naturalmente. Perciò decisero di agire.
Era il 24, pomeriggio inoltrato: l’ultimo giorno in cui il Babbo dei magazzini dispensava regali. Ognuno inventò una piccola scusa per uscire: compiti, lavoretti, mentine o elemosina per la chiesa andavano più che bene. Si ritrovarono davanti al loro rifugio. Le ultime scartoffie furono gettate nel primo cestino. Che farsene? Quella era la fine della corsa. L’ultima cartuccia. Potevano puntare solo su sangue freddo, mani calde e tempismo. Si mossero all’unisono.
Avanzare nell’aria del crepuscolo invernale in una cittadina così piccola è essere liberi se presti attenzione a ciò che ti circonda. L’erba a bordo strada prova ad emergere timida su ghiaccio e asfalto: schiacciala e crescerà più forte. Le prime ombre non sono mai tutte uguali: sembrano cavalieri famigerati che si stagliano rispetto alla fanteria informe che arriverà in seguito, col buio pesto. I fumi dei comignoli riversano in strada un tepore e odore di sicurezza che, nell’aria infinita, per non disperdersi, si lega agli altri in una sinfonia irresistibile. E poi la luna, madonna la luna, dopo una nevicata è come un posacenere da cui è volato via il contenuto, così vuota, tristissima eppure confortante e invitante.
Sì, i quattro vivevano quella serata come non mai.
La strada per il superstore era parecchia ma loro la percorsero senza fatica, con gli occhi luminosi, le guance arrossate e il naso all’insù. Dissero poche parole; e tanto per tenersi stretti. Si osservavano per tenere impressa l’immagine della loro infanzia, il più a lungo possibile, in futuro. Si sarebbero ricordati di essere stati un gruppo un tempo.
Così persino Mattia era sempre piuttosto affabile, a volte addirittura protettivo, non più dispotico.
“Avete fame?”
“No”
“No”
“Mm, neanche io”
“Io veramente un po’ sì, ho bisogno di … ”
“No, Alito, non c’è tempo per fermarci al Circolo ARCI. Eccheccazzo, mica vorrai baciare anche Babbo Natale?”
“Fanculo no! Ok, Ok, andiamo. Ma promettetemi che ce la faremo anche senza le mentine. Eh, che pensate? Ce la faremo, vero? Sì? Dai, ditemi che sapremo chi è, chi è, chi è-èè-E’E’E’” e terminò la frase canticchiando, per stemperare.
“Sì, ce la faremo. E’ una sensazione. Una promessa”.
Le luci dei magazzini Colpetti si vedevano già dalle curve precedenti. Quando entrarono, una folla di mamme e bambini imbacuccati si accalcava verso il centro del main store: il trono di Babbo. Pareva una sorta di sistema solare aggrovigliato. Un vero formicaio.
Mattia provò a far valere i suoi chili, ma se spingeva via uno, questo magicamente ripiombava di rimbalzo al suo posto perché non aveva spazio per rotolare fuori. Era come lottare contro un budino.
Avrebbero rischiato di fare le ultime ore di fila a vuoto. Decisero di aspettarlo fuori.
Mezz’ora dopo l’orario di chiusura, quando ormai il parcheggio era deserto, uscì dalla porta sul retro Papà Natale. Aveva un’andatura leggermente ciondolante, come chi è stanco ma non pienamente felice.
Lo accerchiarono. Da dietro le sciarpette lo studiavano con aria torva.
Lui prontamente salutò. A suo modo: “Ho-ho-hooo!”.
Nessuna risposta. Il cerchio si strinse e Giulio entrò all’interno. Toccava a lui fare le domande. Era giusto così, con tutto quello che gli aveva combinato il portaregali.
“Come ti chiami? Chi sei?”
“Ho-ho! Che domande, figliolo. Ma dove vivi per non sapere chi sono io? Ho-ho!”
“Le domande le facciamo noi”, intervenne Mattia dalla circonferenza.
“Dove abiti, tu?” proseguì Giulio.
“Beh, cambio casa ogni anno, cercando di restare sempre in posti freddi. Devo conservarmi in forma. Sono approdato in questa zona più di una volta perché si sta davvero bene. E poi, a notte fonda, grazie alla mia slitta, mi muovo. Sono pur sempre il patrono di tutti. Ho il dovere di svolgere al meglio la mia missione ecumenico-universale”.
I piccoli mossero gli occhi verso Mattia. Questi annuì. La risposta poteva andare. Forse non stava raccontando balle.
La voce di Giulio parlò repentina e tiepida: “E porti i regali a tutti-tutti da qui? Ma come fai?”
“Te l’ho detto, la mia slitta fa miracoli. E per non dimenticare alcun nome, i miei assistenti si avvalgono dei migliori database. Riuscivamo anche con le pergamene. Ora è un gioco da ragazzi. Siamo un team consolidato”. Prima Babbo sembrava divertirsi, ora il suo tono si era fatto impastato.
Giulio fece un passo avanti. Si srotolò la sciarpa, lentamente, come fosse un cinturone. I suoi occhi erano gonfi di lacrime.
“Sei un bugiardo” disse. “Sono due Natali che trascuri la mia casa. Non ti ho fatto niente. Non ho fatto niente a nessuno. Sono un bimbo buono. O almeno lo credevo. Perché…” e tirò su con il naso “… perché mi fai questo?”
Santa Claus rimase impietrito. La barba, bianco scuro e ovattata, sussultò impercettibilmente. Fece per parlare, ma ci ripensò. Poi di scatto disse: “Beh, basta! … Qui i giochi li porto e li detto io. Abbiamo scherzato fin troppo” e accennò una partenza nervosa.
A quel punto Mattia si mosse lateralmente, mani in tasca e cappelletto di lana, calatissimo, che sfiorava le ciglia. “Tu da qui non ti muovi”. Era un tono piuttosto freddo, ma lasciava trasparire l’intenzione di difendere l’amico ferito. “Tu non sei chi dici di essere”.
Babbo Natale lo spinse e i due si strattonarono in un accenno di rissa da due soldi.
Gli altri oscillavano le giunture con agitazione.
Dalla fine della stradina si sentì una voce autoritaria: “Che cazzo state facendo laggiù?”
Era uno sbirro in divisa insieme a un suo collega e a un altro compare del genere: la guardia del supermarket.
Arrivarono di corsa e il guardiano, amico di Babbo, provò a tirar via Mattia. Questi gli mise un gomito sul pomo d’Adamo e fece pressione per spingersi in avanti verso l’uomo in rosso. Voleva smascherarlo. I carabinieri lo placcarono ma lui li trascinò con sé. Agguantò Babbo per il velluto sulla spalla. Il vecchio, rosso anche in viso, allungava il collo indietro perché voleva che la sua barba rimanesse intatta. Ma proprio lì arrivò la manona di Mattia. Il ragazzo franò in avanti sotto il peso dei militari che aveva sul groppone. Un capitombolo generale mostrò ai piccoli spettatori una scenetta da cartoon: un ammasso informe di corpi, quasi tutti in sovrappeso, aveva frantumato il sottile strato di neve e ghiaccio che copriva l’asfalto del parcheggio.
L’appuntato si alzò di scatto per spolverare la divisa e la scena cominciò a ricomporsi. Infatti si mise in piedi anche la guardia; e poi il capitano, con la pistola in pugno e l’altra mano che strattonava Mattia, dicendogli: “Alzati, finalmente ti abbiamo trovato”.
E rivolgendosi alla guardia: “Questo ragazzo era un nostro collega. Lavorava sotto copertura, più a sud. Uno davvero in gamba. Dopo aver ammazzato -giustamente- alcuni capi di una cosca locale, pare sia scappato in preda a una crisi esistenziale. Sembra perché pentito delle violenze inflitte ad altri e stanco di stare solo. Ma cazzo! Ma quale solo? Ma che noi non siamo tuoi amici? Quello che hai fatto era per la lotta al crimine! Per l’Arma! Devi esserne fiero. Non opporre resistenza. Non è giusto rifiutare un regalo del generale, se lo ha già ordinato. E’ mancanza di rispetto verso lui e lo Stato, tuo tutore e protettore. Vieni, ritiri la patacca e poi si decide il da farsi. Ti affideranno nuovi casi o, se proprio vuoi, ti daranno una scorta per qualche anno e una nuova identità. Purché scelta da loro!” e gli piegarono di scatto la testa in avanti e le braccia all’indietro. Mentre le manette scattavano, Giulio e gli altri pensarono a quella storia dei calciatori africani che modificano l’età. Ma non si sentirono imbrogliati né traditi. Dinanzi allo sguardo fiero e malinconico di Mattia avvertirono un nodo in gola e, forse per la prima volta, vollero bene a quell’ex-poliziotto che neanche in classe era riuscito a rinunciare alla sua immagine da duro. Aveva mentito restando sincero. I suoi compagni lo apprezzarono.
Poi videro Babbo Natale che si rialzava a fatica da terra, acciaccato eppure dall’aspetto più giovane. C’era qualcosa di strano in lui.
Un metro più in là, infatti, giaceva sotto i piedi di Mattia una barba finta.
Giulio la notò e posò di nuovo lo sguardo su Santa Claus.
Poi si inginocchiò e rimase indeciso se piangere o far lì un po’ di pipì senza vasetto. Invece parlò: “Ma come è possibile?”
Anche i suoi amici storici parevano paralizzati: Marcello a braccia strette per il freddo, Aldo a bocca aperta per rimpiazzare le mentine con qualche boccata gelida.
L’uomo in rosso si toccò il mento e abbassò lo sguardo. “Mi spiace”, disse. “Mi dispiace tanto. La mamma e io lavoriamo e lavoriamo ma raccogliamo poco o niente. Perciò ho scelto questo lavoro stupido. Odio tutte queste manfrine, lo sai. E avrei voluto farti tanti regali. Ma negli ultimi due anni anche mamma ha dovuto cambiare più volte ditta e gestire una casa costa, sì, costa, troppo. Consegnare i regali a tutti e non a te è umiliante, me ne rendo conto solo ora. Ma pensavamo di doverci dedicare di più a garantirti un futuro, una possibilità più avanti, invece che un presente fatto di contentini. Pensavamo l’avessi già capito, fossi diventato grande, ma era forse solo un nostro alibi per non conservare la coscienza sporca. Scusa, figlio mio”.
Il bambino lo guardò a lungo. Lo dicevano in tanti. Il suo scetticismo franò di colpo. Suo padre era Babbo Natale. Semplice e incredibile.
Eppure non capiva neanche allora fino in fondo quel comportamento. Non per questo poteva dirsi immaturo. Infatti, nonostante quel che era successo fosse triste e ridicolo, perdonò subito quel padre frustrato e sincero. E pensò di voler tanto bene anche a sua madre. La immaginò davanti casa ad aspettarli, in pensiero. Il Natale, quello vero, era d’un tratto alle porte.
Il suo babbo promise di lasciare quel lavoro che odiavano. Gli promise che ne avrebbe cercato un altro per occuparsi del presente di suo figlio. E di nient’altro. Perché Natale era QUEL giorno, non gli anni successivi.
Così si incamminarono verso casa, per la prima volta come un padre e un figlio, mentre gli sbirri caricavano Mattia sulla Gazzella.
Che ne sarebbe stato del loro compagno di classe più rappresentativo? Non lo sapevano. Ma salutarono verso il finestrino, dove un ragazzo troppo adulto era solo allora riuscito a maturare, alla rovescia, divertendosi. Infatti le sue frasi tipo “Compagni, fate finta di scherzare insieme ma tra qualche anno sarete i soliti stronzi che tirano acqua solamente al proprio mulino” oppure “voi sarete gli impalatori del corpo già esanime della coscienza collettiva”, beh, quelle frasi schifate avevano lasciato il posto ad un sorriso sincero dietro un vetro. Osservando le loro espressioni capiva di aver trovato degli amici. E fu felice.
Si accorsero che aveva incominciato a nevicare. I fiocchi scendevano lenti e accorti. Il paese sembrò una palla di vetro in cui si era ristabilito l’equilibrio tra focolare domestico e mondo esterno; tra il caminetto centrale come un utero e turbinii di vertigini bianche, ormai lontano ricordo. Il villaggio ora era in pace. Due zampogne suonavano affiatate dietro le colline. Le coccarde indicavano protezione, non più necessaria. Il cielo era attutito e docile. Tutto, anche le canzoncine natalizie suonate e risuonate, era carico di purezza. La ricerca era alle spalle come l’inverno dei cuori. Incantesimo divenuto incanto. C’era gioia d’altri tempi nell’aria. Un paesaggio dell’anima indimenticabile.
Un finale dolce, natalizio in tutto e per tutto.

Finale per convenzione, come sempre accade.
Infatti non si seppe cosa fecero i ragazzi in futuro. Se uno divenne presidente e l’altro dipendente o bombarolo o first lady o fruttivendolo ambulante. Né se rimasero in contatto o morirono a trent’anni o andarono a vivere lontano da lì. Per necessità o per scelta.
Quel che si conobbe è che quell’inverno Giulio, Mattia, Alito e Marcello raggiunsero un sottile equilibrio tra coscienza e giovinezza, maturazione e felicità. Probabilmente non sarebbe più accaduto. A meno che la ricerca del vero Babbo Natale non avesse regalato loro due doni da portar con sé, stranamente abbinati: unione e indipendenza. Forse, dopo tutte quelle mancanze e peripezie, li avrebbero conservati un po’ più a lungo.
In parte quei regali li avevano già accettati. E sì, a soli nove-dieci anni, l’infanzia per loro era proprio finita. Come un’onda di neve che li aveva tenuti a galla e trasportati troppo a lungo, unica e misericordiosa.
Ora loro avevano imparato a coprirsi e galleggiare.

Vi scrivo questa storia perché mi ricorda qualcosa.
Anch’io ora sono vestito in velluto rosso e lanetta bianca. Facevo parte di un gruppo. Ora lavoro da solo, se si eccettuano i commessi-elfi al centro commerciale. Ma quel gruppo, quello di questa storia, non lo dimenticherò mai.
Ve la scrivo inoltre perché anche voi, figli miei, meritate un regalo.
Tutti.
Per due motivi:
1. affinché, dato che non vi trascuro, non vi venga in mente di intraprendere un’Odissea formativa che rischierebbe di farmi perdere il posto di lavoro invernale ai grandi magazzini, che a me piace tantissimo;
2. perché, se anche foste stati cattivi, una storia costa sempre meno del carbone.

E poi, bambini, è Natale, che diamine. Siamo tutti più buoni.
Bentornati a casa.
E auguri.

giovedì 14 gennaio 2010

lunedì 4 gennaio 2010

My Favourite Oxymoron






Le fantascienze arriveranno; ovvero come le maestranze possano trasformare le autonomie in automi

Finanche Pasquale, dal suo nido verde, circondato da buoi e vestali nude, idillico e atemporale, capì che non si trattava di una semplice guerra.
Ci aveva riflettuto. Da non crederci.
Aveva ripensato all'ultima volta in cui aveva dato un'occhiatina alla TV. E gli era bastato. Sì, chiaro, le tette di Miss Italia e di Roberta Capua -finalmente tornata alla ribalta- non gli dispiacevano davvero, ma aveva deciso di dichiararsi pensatore. E di fare di tutto per convincersene. Un immortale, unico Highlander delle pianure, questo desiderava essere. I Foggiani in primis e poi facilmente tutto il mondo avrebbe capito la sua scelta. Così nell'autunno 2012 aveva cominciato a sbirciare nelle chiappe dei suoi capretti e a volte persino di piccioni. Aruspicina, futuro e "io so" erano diventati il suo pane quotidiano. Dal suo paradiso minuto rendeva servizio all'umanità. Sbucciava conoscenza. Se avesse avuto realmente qualcuno interessato a cui trasmetterli, i suoi vaticini sarebbero stati tradotti in notizie così terribili da far perdere il sorriso anche al cane Muttley delle Corse Pazze della Hannah & Barbera, tanto erano cupe e senza speranza. Se ne rendeva conto, ogni giorno di più.
Quella mattina, soleggiata ma umida, a pochi mesi di distanza dall'inizio della sua attività di chiaroveggente, il buon vecchio Pasquale aveva trovato a portata di mano soltanto una talpetta e aveva preso a osservare i suoi piccoli intestini. Per vedere se qualcosa cambiava in meglio. Tra l'altro solo Pasquale era in grado di "vedere" attraverso una cazzo di talpa, povera orba malcapitata. Ma lui aveva il dono. Ed ecco quel che vide.
Facendosi spazio, leggermente e delicatamente, tra l'intestino crasso e quello tenue dell'animale morto iniziò a scorgere qualcosa. Il vuoto interintestinale pian piano divenne una gola di montagna. Le budella inferiori, sinuose e soffici, sotto la pressione di pollice e medio sfumarono lasciando spazio a dune sabbiose. Con poche orme ma migliaia e migliaia di anni. Il vento, alzandosi, sferzò quel che rimaneva della valvola del piloro (della talpa), ormai trasmutatasi in una sorta di astronave color ocra che svanì lucida e silenziosa, come un miraggio all'interno di un sogno. La mente di Pasquale seguì le sue dita immergendosi in quella visione morbida e fugace. A tratti sbiadita, come è giusto che sia.

Era una terra lontana. Impervia, ancestrale, impossibile. Seguendo la danza delle correnti d'aria si attraversavano deserti di pietre glaciali e montagne dall'ombra rovente. La neve cadeva a bossoli ma l'acqua era così poca che le sorgenti parevano culi con emorroidi.
Era l'inferno? Ma no! Questo posto era abitato!
Deglutì, l'osservatore, ateo e sempre più accigliato. Sotto la terra, infatti, scorse tane da roditori con gallerie kilometriche che percorse come uno spirito. Incontrò guerrieri con turbante e barba, vegliardi con la barba, bimbi col turbante, bambine senza turbante né barba ma con una tunica che le copriva dalla fontanella all'alluce, donne nude ma solo negli anfratti più bui. Qui la sua proiezione sfrecciante rallentò un po' di più. Udì la loro organizzazione in arabo, la loro religione in arabo e violenze nella stessa lingua. Ebbe un'interferenza della vista...
e una città si aprì dinanzi. Era da un'altra parte ma nella stessa regione, nella stessa visione anticipatrice. Luce e stormi di pietrisco. Case-macerie e macerie-case. Odore di arrosto ricotto, lividi e terra cartilaginea. Rumori liftati di sandali, intervallati da clank di caricatori e trappole. Collina e giù un boato attutito.
Arena. Combattimento tra cani. Quindicimila spettatori levigati dall'afa.
Il mullah stava per decretare il vincitore. Alzò il dito, su, su in alto, per la benedizione.
Solo allora Pasquale notò l'altro mondo, nell'aria. Il cielo, al di sopra della poltiglia creata da terra e nuvole, era grigio splendente. E popolato. Decine -forse centinaia- di mezzi aerei saettavano in formazione come freccette sparate da una Gatling. E bombardarono quasi all'unisono.
Enormi sculture di polvere sembrarono innalzarsi dal suolo, danzanti per l'impatto dei missili. Si mescolarono alle anime delle donne d'Occidente rapite e trucidate lì nei paraggi. In nome di Dio. Gridavano vendetta.
La nube sparì. Metà anfiteatro improvvisato spazzato via. Canidi e umanidi stecchiti. Gli altri, i vivi a sedere, impassibili, come se non fosse successo nulla. Sembravano indistruttibili perché vuoti, zomboidi, o comunque sopravvivi più che vivi qualunque. Il mullah dunque abbassò di scatto il braccio e un nuovo combattimento prese inizio. Un carretto meccanico che imitava un cingolato affrontava una scimmia con la rabbia. Uno goffo, l'altra isterica. Battaglia dei generi o sui generis. Differenze duellanti, mentre una risata comune rese la fossa desolata e agghiacciante.

Dall'altra parte, intanto:
-Signore, signore, yuppiiieeee!!! Li abbiamo beccati, hia-hahha! Ne abbiamo fatti arrosto una montagna nell'ultimo attacco. Doveva vedere le loro barbe, signore: sembravano arrotolate e ancora sbruciacchianti come i sigari di quell'altro rotto in culo -il comunista- che ci ha dato rogne, nel secolo passato, dalla sua baia vicino alle nostre coste!-
Il maggiore alzò gli occhi dal tavolo trasparente, si avvicinò al soldato e gli spolverò una spalla, facendo cadere miniparticelle di detriti cartacei dalla sua tuta in poliestere; mentre lo guardava come si guarda l'essere più idiota e spregevole sulla faccia della terra. Dopo i taliban, ovviamente.
-Ottimo lavoro soldato-, disse.
Pensò a come tutti i suoi uomini sapessero usare i nuovi computer o fossero addestrati a planare, disintegrare e persino tagliarsi rapidamente la carotide se, colpiti, capivano di cadere in mano al nemico. Ma pochi di loro sapevano che i nascondigli sotterranei sfornavano più figli di quanti loro riuscissero ad ucciderne, con le armi al plasma e i laser di ultima generazione.
Gli venne voglia di uscire in battaglia a torso nudo e urlante, per dimostrare il suo coraggio e la sua virilità antitecnologica a quelle mostruosità sottomesse ad Allah.
Ci pensò su qualche istante. Poi corse a sfogarsi palpeggiando il costume in latex della sua formosa inserviente, munito di bandiera a stelle e strisce sopra l'inguine e degli obiettivi militari da studiare stampati nei punti erogeni. Era pronto per un nuovo attacco.

Le battaglie continuarono e con loro turbanti e propulsori supersonici, stendardi e mutilazioni, pornodive in divisa e cani da giochi pubblici, velocità e indifferenza.
E le barbe crebbero a ripetizione concimate dalla parola di Dio e le astronavi continuarono a mitragliare fiere della loro invisibilità.

-No, di certo non si tratta della solita guerra- commentò l'eterea proiezione di Pasquale, ora risalita ai margini di quel mondo a venire.
In fondo in fondo aveva ragione: non esistevano nemmeno schieramenti capaci di potersi fronteggiare.
I nemici non erano tali. Erano qualcosa di più, qualcosa di molto molto peggiore. Erano rotaie fredde senza le necessarie traversine. Estraneità. Mali incurabili perché vuoti. Erano lo Zenit e il Nadir. Erano due futuri inconciliabili: la Robotica e il Post-Apocalittico. Erano fantascienze possibili purché tenute debitamente a distanza.
Così quel mondo, scrutato in lungo e in largo, ora appariva come una biglia marrone e blu. Tagliata di netto dalla classica striscia bianca, del distacco, della mediocrità, dell'apatia, ipocrisia e quotidianità. Era un micromondo rotolante ma pur sempre uguale, indelebile, un gioco da poppanti tristi.

Pasquale alzò lo sguardo, perso e impotente, come ogni volta che guardava lì.
Aveva iniziato a leggere il futuro perché voleva anticiparlo, in un certo senso modificarlo per aiutare, o per lo meno isolarlo per vivere in un presente tranquillo.
Beh, non c'era riuscito.
Così pensò bene di ripiegare sulle vestali, nude e bellissime, prima che anche il suo piccolo Eden si divaricasse come un ventre di talpa tenero e giovane al passaggio del bisturi.
Sapeva che il futuro non perdona: figuriamoci quando sono in due a volerti, vicini, divergenti, implacabili.
Per fortuna l'edonismo è una droga straordinaria e naturale.
Si avvicinò allora alle donne, deciso ad abbandonare la sua veste di saggio e a regalare loro un mezzo minuto indimenticabile.