Una casa in inverno è più di una semplice casa. E’ tua madre. Non abbandonarla mai.
Giulio aprì di un tantino la porta per osservare la situazione. Tutto era silenzioso. Solo tre punti luce descrivevano la sua villetta.
1. Il fascio che fuoriusciva dalla sua cameretta: proiettava striature sulla porta del bagno di sopra. Di notte la ringhiera in legno delle scale era meno sicura. Sembrava deformarsi in alcuni punti, insidie di tenebra. Si sarebbe tenuto accanto alla parete, se proprio fosse sceso.
2. La nuvoletta di luce in fondo alla rampa, di un rosso cupo come un paiolo di castagne rosolate. Era la sua meta: il caminetto acceso, ma per poco, ormai. Era tardi anche per i carboni quella notte.
Punto illuminato numero 3: la finestrella accanto alla sua porta. Filtrava poca luce da lì con tutta quella neve appesa alla grondaia. Ma quel poco bastava a rendere il tutto meno accogliente. Gli sembrava l’occhio di una civetta, neutrale e statico.
Si innervosì e fece cigolare la maniglia, Giulio. Lo scricchiolio sembrò per davvero la civetta, giunta dall’Inferno a fare la spia. Non voleva essere beccato, ma ormai gli scappava anche la pipì. E avevano un solo bagno, di sotto. Doveva scendere. Una scala alla volta. Sembravano sempre più alte. La luce dietro l’angolo fa paura anche a nove anni.
Appena posò il calzino sul parquet del soggiorno, si appoggiò alla parete divisoria e si sporse lentamente. Vide un’ombra e il suo cuore vacillò. Ma era solo Berta, che, sentendosi osservata, era corsa sotto il divano, nella sua cuccetta di cartone. Per il resto nessun segnale. Il tremolio del fuoco sulle ombre era costante. Prese ad avanzare verso la fonte di luce. Tra la credenza e il divano, con il pigiama calante e le gambe semiaperte per la necessità di andare in bagno, trascinava i passi: un piccolo cowboy che cerca il duello al tramonto, sole in faccia e ombra alle spalle.
Guardò, con una piroetta su sé stesso, in giro. L’atmosfera lo avvolgeva. Sembrava che grandi mani nere gli si chiudessero attorno. Aveva fretta.
Allora si mosse. Mise una mano sulla spalliera della poltroncina e la tirò a sé, scattando contemporaneamente con un balzo in avanti, nel punto prestabilito. Guardò ai suoi piedi…
Il centro del tappetino era vuoto. Le sue orbite rotearono un po’ su e giù; si aprivano di scatto e serravano, incredule. Era vuoto, oh no, no, era vuoto, era vuoto!
Neanche quell’anno si era presentato. Niente regali. Niente feste.
Era il 25 dicembre 1999. E un fluido caldo e sincero disegnò una chiazza sul tappeto, prendendo il posto di sogni infantili.
La ricerca iniziò così.
Si può tollerare una svista una volta. Alla seconda è noncuranza. E un atto di indifferenza a Natale, per giunta ad opera di colui che rappresenta il Natale in persona, non è come negli altri giorni: è inaccettabile.
Un vero affronto.
Come quando hai l’albero in casa e ogni giorno cade una pallina, un pacchettino o un po’ di pioggia dorata. E tu la riappendi o prendi la paletta per pulire, rimproveri il gatto perché stia più attento e dai la colpa agli spifferi. E’ normale. Succede. Quando però cade la punta più bella del vicinato, che tu hai piazzato sull’albero dopo tre ore di sforzi, rispolverando il seggiolone di quando eri piccolo, usando un appendiabiti modificato (da te) e tecniche circensi apparentemente sconosciute,… beh, quando cade quella stramaledetta incantevole stella appuntita è diverso. Hai due sole possibilità. O tagli l’albero con la sega del nonno. O lanci i pezzi rimanenti sulla sommità del tronco, sperando che si reggano sui rametti superiori, per poi spacciarli con nonchalance per novità della casa: minimeteoriti più polvere di stelle.
Giulio ebbe un atteggiamento simile dopo il fattaccio di Natale: stava per affiggere a scuola manifesti pseudo-satanici con un Santa Claus imbottito di tritolo o in alternativa pensava di costruire un pacco con i risparmi dell’anno da regalarsi da sé sotto l’albero il Natale seguente.
Le due possibilità di cui si parlava prima con l’esempio dell’albero: rabbia o reazione molliccia di ripiego (anche detta reazione “tanto per”).
Niente perché. Non vedeva altre possibilità. Ed era deciso ad odiare quella festa tutta preparativi e quell’omone satollo e ipocrita.
Fu allora che fece la differenza Mattia. Il genio. Il fuoriclasse. La merda.
Mattia era un compagno di classe di Giulio. Il primo della classe. Ma non il cocco dei professori col cravattino. Non quello che studia tanto e viene spronato ed esaltato dai genitori papponi. E che si presenta col naso all’insù ai quiz televisivi. No. Beh, decisamente no. Era davvero un qualcosa di indescrivibile. Era di un altro pianeta. Un mostro, in tutti i sensi. Aveva otto anni e leggeva Céline, Nabokov e ultimamente aveva parlato anche di un certo Zizek. Niente di strano nella cerchia dei genietti da spot. La cosa eccezionale era che a queste superdoti si abbinava in lui un fisico da pilone da rugby, un intuito degno del miglior Philip Marlowe e un carattere da provocatore nato, qualcosa tipo Cassano ai tempi delle giovanili. Riuscite a immaginare un Cassano intelligentissimo, determinato e indistruttibile? No? Infatti era una roba da non crederci.
E gli insegnanti novelli non ci credevano. Prima di entrare per la prima volta in quella Terza H ironizzavano su quel mito: “Sì, ok, ma che sarà mai? Un ragazzotto intelligente che ha bisogno di regole per migliorare ancora” oppure “Rappresenterà uno stimolo in più per noi professori” o, riferendosi alle sue umili condizioni economiche, dicevano “Deve essere come quei calciatori nigeriani che abbassano la loro età per emergere: noi, come la disciplinare, indagheremo e lo faremo sospendere”.
Niente di più avventato. Sfottuti, continuamente corretti, umiliati, erano costretti dopo poco o ad andarsene o a lasciare le redini della classe in mano al piccolo despota. Mattia aveva spedito tre maestri dallo psicologo, per mancanza di autostima in loro stessi; un’altra aveva provato a schiaffeggiarlo ed era stata presa per i polsi, immobilizzata dall’alunno e poi anche condannata dal Consiglio d’Istituto. Il vecchio preside, esperto, si fingeva assente quando lo chiamavano da quella classe.
La mattina di gennaio, alla riapertura delle scuole, durante l’ora di educazione motoria, proprio Mattia passò in rassegna i compagni che facevano lo skip e domandò: “Allora, amichetti, che cosa avete ricevuto da Babbo Natale?”. Fece un sorrisetto che avvalorava la sua già celebre tesi dell’inesistenza del nonno rosso e grasso e continuò: “Tu, Michel? La videocassetta del mondiale del 1998 o quella dell’ ‘82? Dovrai pur capire se sei italiano o francese? E’ una necessità per te sapere qual è la tua natura. O vuoi seguire il mio esempio di una riflessione sulle caratteristiche comuni a tutte le lingue, dalle quali si ricaverebbero zone morali su cui battere il chiodo in una visione transculturale? Ma forse tu non sei adatto a battere il chiodo…”, disse Mattia e guardò Letizia la biondina, che arrossì per l’emozione.
Michel stette un attimo in silenzio, poi parlò a testa bassa: “Ho ricevuto un puzzle dei Puffi”.
E Mattia: “Non male. Sono blu chiaro: non scontenti né i tifosi italiani né quelli francesi. E’ un primo passo per il confronto. Braaaavo!” e gli diede un pizzicotto sulla guancia.
“E tu, Gigi, quest’anno babbà, torrone e’ mammà o pastiera anticipata?”
Il piccolo pingue napoletano si fece rosso rosso e dopo poco sfiatò a denti stretti: “Chella zompaper’t e’ zieta, «Ainsctaign» do’ ‘o cazz!”
Ma Mattia era passato oltre e non lo aveva neppure ascoltato. O aveva fatto finta di non udirlo. A volte non li teneva in nessun conto, i compagni; e tantomeno le loro risposte. Erano troppo, troppo, più in basso. Li usava per divertirsi, ma da un pezzo preferiva concentrarsi sui professori. Era stato magnanimo. E comunque quel giorno doveva finire il giro-ispezione.
Passò agli ultimi tre, gli amiconi: Marcello, l’unico più povero di lui; Aldo, detto Alito per le mentine che ingurgitava di continuo per piacere alle bimbe; e chiaramente Giulio.
Anche con i primi due fu un piccolo show (per Mattia), ma la svolta si ebbe con Giulio.
Mattia si presentò così: “He-he, allora, è comodo?”
“Cosa?”
“Il tuo nuovo regalo!”
“Il m-mio nuovo reg-alo, mm…”
“Beh, sì”
“E tu come fai a sapere cos’è?”
“Non ci vuole un genio: è lo stesso ogni anno.”
Giulio iniziava ad innervosirsi perché sospettava che tutti sapessero che era rimasto a mani vuote.
“No, no, è diverso quest’anno”, provò a uscirne, Giulio.
“Ah, sei diventato grande” sentenziò Mattia con la bocca all’insù.
Giulio ora sapeva che avevano scoperto che non riceveva regali.
Disse un “sì” a bassa voce.
Ma Mattia infierì: “Non mentire, hai solo ricevuto un nuovo modello.”
Giulio, allora, confuso e nervoso, fece una smorfia e scoppiò a piangere a dirotto, proprio mentre Mattia ripeteva: “Un nuovo modello di...... vasetto Chiiccooo!”.
Tutti scoppiarono a ridere, pensando all’incontinenza di Giulio, ma anche e soprattutto per compiacere il boss.
Il piccolo in lacrime urlò: “Bugie, bugieee! Non è vero! Io sono due Natali che non ricevo proprio regali!”
Al che gli amici si fecero seri e impietositi; e Mattia, attento, chiese: “Parli sul serio?”
“Sì, giuro, giuro, non ne posso più, Babbo Natale mi ha tradito, non mi apprezza, non si degna di farmi visita: noooo-ho-hooo!” Singhiozzoni e brividi. Era un bimbo davvero distrutto.
Mattia, con aspetto serioso, si fece più vicino. Ma non disse cose tipo “Cazzate, il Babbo non esiste”, bensì “Mm, interessante… Dovremmo indagare. Chissà perché l’Egalitario ti ha trascurato. Bah… Dunque... Sentite, perché non ci mettiamo all’opera, io, tu e i tuoi due fidati?” Accennava a Marcello e Aldo. Di sicuro desiderava gironzolare a capo di un drappello, per poi prenderli in giro, piantarli in asso e riprenderli in giro. Ma Giulio non aveva altra scelta: doveva ubbidire. E poi quello era l’unico modo per dare un’occhiata alla situazione e cercare di capire. Era quello che voleva. La sua unica pista. Allora si asciugò il naso e annuì.
Per il dicembre seguente sarebbero stati pronti; preparati per il gioco o beffa (nei pensieri di Mattia), per la scoperta (nelle speranze di Giulio), dopo un anno di indagini.
E fu così. I tre pards raccolsero testimonianze e storielle varie e le consegnarono di volta in volta a Mattia, che aprì un fascicolo sul caso. Pensava Giulio che, grazie alle abilità del suo capo, quella non sarebbe stata la solita indaginetta alla Cartoon Network, tipo su chi ha rapito Santa Claus o robaccia del genere. E forse non si sbagliava. Grazie a lui, i tre amici avrebbero saputo finalmente non dove, quando o perché arriva, ma chi cazzo è Babbo Natale!
Hoh!
La ricerca era finalmente iniziata. Il patto era sancito. E soprattutto il monito invernale infranto: erano usciti dalle loro accoglienti casucce (o per Marcello sagrestia/orfanotrofio dove viveva -accogliente nel senso più stretto del termine-) per calcare un territorio a loro estraneo. Per entrare nel regno della neve alta, dei pungitopi, della notte senza sonno. La regione bianca e opaca appartenente a colui che cercavano.
Le informazioni pian piano aumentarono.
Il fascicolo prevedeva un diario per le scoperte fatte giorno per giorno. [La sezione estiva, tra l’altro, era fenomenale: Mattia aggiungeva finanche bozzetti con l’espressione degli intervistati, che in ciabatte, camicia hawaiana e col ghiacciolo in mano si sentivano domandare informazioni polari in pieno sole. Roba da svitati.]
In più erano allegate pagine più tecniche e culturalmente prestigiose.
C’era il raccoglitore con i ritagli di giornali e di poesie su San Nicola e S. Claus, tanto per avere un’idea di ciò che pensavano sull’argomento persino poeti e giornalisti. Anche se erano le categorie disinformate per eccellenza -perché lontane dai rumors di strada-, un’impressione è sempre una testimonianza. E la firma importante conta non poco.
Posta a un gradino d’importanza superiore, c’era la parola del prete cittadino, che se nominava di rado Santa Claus voleva di certo dire che le sue informazioni valevano. Non era un santo qualunque. Dalle parole del parroco avevano appreso come la giurisdizione di Babbo, fatta di cuore grande e paritario, a dicembre si espandeva e il prode ciccione scendeva in campo da secoli accanto alla Triade divina. Anzi, nella notte tra il 24 e il 25, sembrava quasi scavalcare in graduatoria i tre pilastri e prendere le redini dell’Impero Universale. Temporaneamente. Come un “tiranno buono” che si fa il mazzo per il bene della comunità. Perché ha le spalle larghe. E merita rispetto. Sì, rispetto: quello iniziavano a capirlo anche loro. Tranne Giulio: se non hai ricevuto regali per due Natali di seguito, non c’è pulpito, storiella o morale paternalistica che tenga, anche se addolcita da parabole ingegnose. Però ciò che anche il bambino truffato condivideva era l’idea che Santa Claus fosse un pezzo grosso, in tutti i sensi. Un intoccabile. Non sarebbe stato facile rintracciarlo.
Loro, come reazione, intensificarono le indagini, chiedendo, leggendo e ragionando. La sezione più importante per Mattia, cioè quella storico-letteraria, divenne maestosa, con centinaia e centinaia di pagine rubate al giornalaio o in biblioteca, lette e sottolineate. Esaminarono origini ed evoluzione del mito, ricostruendo i viaggi del Vecchio in ogni paese del mondo e facendo i conti con colonie olandesi, variazioni nel look, dimore collocate in zone glaciali, folletti pazzoidi ma ligi al dovere, divinità orbe, Coca Cola e complottismi, letterine e canzoncine scritte con i piedi, odore di incenso e brezza d’alta quota, gote rosse, sacchi di juta e colori, colori, colori.
Pian piano i bimbi sembravano lasciarsi cullare da queste fantasie. Forse dovevano credere e basta? Dovevano dire sì e pregare e fare i buoni? Anche se il padre di Alito aveva sospettato che sua moglie lo tradisse a lume di camino e da allora, come ritorsione, aveva piazzato in sala un neon enorme che faceva sembrare gli addobbi natalizi insegne da pub? Anche se Mattia non aveva l’umiltà di fare il presepe? Sebbene Marcello potesse avere un albero natalizio (semispoglio) solo in quanto inquilino della chiesa, nel ricovero per poveri? E anche se Giulio non riceveva regali da ben due anni senza motivazioni e senza poter discutere del problema con mamma e papà perché non lo ascoltavano, impegnati e veloci?
Sì, forse dovevano proprio credere e basta. Perché? Perché era bello. Perché leggere più volte il Canto di Natale di Dickens, tutti insieme nel loro scantinato-dipartimento, li faceva sentire uniti, uguali, sereni. Persino Mattia concedeva loro di parlare e a volte li ascoltava addirittura. Alito non mangiava mentine. Marcello non inseriva nervosamente il dito nel giubbotto bucato. Giulio non si pisciava nei calzoni. E poi uscivano al freddo e prima di tornare a dormire sfoderavano aneddoti natalizi, aggiornamenti, barzellette spinte su Babbo Natale, che anche se stupide e ripetute li facevano ridere.
E giunto ormai dicembre continuarono la caccia non più (tanto) per sapere la verità, quanto solo per vivere un altro po’ quell’atmosfera magica, che li rendeva felici come non mai.
Però l’indagine, purtroppo, è una tipologia di ragionamento spietata: deve raggiungere una conclusione. E loro seguirono il percorso quasi senza rendersene conto.
Un pomeriggio trovarono Mattia nella loro base, seduto accanto a un piccolo falò. Non voleva raccontare folklore o storie esotiche come al solito. Aveva bruciato il materiale. E lasciato in vita solo gli indizi migliori. Aveva fatto una cernita. Gli altri parvero d’accordo.
Restavano tre strade da percorrere:
1) andare a fare domande al ciccione barbuto che viveva nel cartone in Via dei Tigli e rispecchiava in pieno l’iconografia natalizia: “Forse ha una doppia vita tipo i supereroi”, disse Alito;
2) affidarsi alla leggenda che pareva loro migliore: quella di San Nicola di Mira (poi di Bari), patrono e donatore, e quindi recarsi al Duomo in Puglia per ricavare tracce dal passato;
3) andare ai grandi magazzini e fare una fila chilometrica prendendo a cazzotti i bambini rivali -da vera gang affiatata- per abbracciare infine il panzone sulla seggiola rialzata e, grazie ad un veloce questionario, vedere se era il Babbo Natale originale o una trovata pubblicitaria.
La seconda pensata fu scartata immediatamente: l’idea di andare a rispolverare reliquie incrostate di certo non si accordava con la loro idea della festività natalizia. Era un’azione da Halloween. Contrastava di netto con l’atmosfera tanto amata del Santo Natale.
Allora presero in considerazione le due rimanenti possibilità. Ma una volta incontrato Pelo il barbone, il suo puzzo di alcol scartò in un baleno il pensiero che quel tipo potesse avere una seconda identità. Con tutto quello scaldabudella in corpo, se fosse stato lui Babbo Natale, al primo caminetto ancora leggermente acceso in cui si fosse intrufolato avrebbe fatto il botto! No. No. Di certo non era lui.
Rimaneva la pista del supermercato. Pensare che il vero Babbo stesse coccolando bimbi nella loro cittadina e non altrove non era il massimo. Ma perché scartarla? Non si sa mai. In fondo quella città era un posto discreto. Nessuno si faceva gli affari altrui. Eccetto loro quattro, naturalmente. Perciò decisero di agire.
Era il 24, pomeriggio inoltrato: l’ultimo giorno in cui il Babbo dei magazzini dispensava regali. Ognuno inventò una piccola scusa per uscire: compiti, lavoretti, mentine o elemosina per la chiesa andavano più che bene. Si ritrovarono davanti al loro rifugio. Le ultime scartoffie furono gettate nel primo cestino. Che farsene? Quella era la fine della corsa. L’ultima cartuccia. Potevano puntare solo su sangue freddo, mani calde e tempismo. Si mossero all’unisono.
Avanzare nell’aria del crepuscolo invernale in una cittadina così piccola è essere liberi se presti attenzione a ciò che ti circonda. L’erba a bordo strada prova ad emergere timida su ghiaccio e asfalto: schiacciala e crescerà più forte. Le prime ombre non sono mai tutte uguali: sembrano cavalieri famigerati che si stagliano rispetto alla fanteria informe che arriverà in seguito, col buio pesto. I fumi dei comignoli riversano in strada un tepore e odore di sicurezza che, nell’aria infinita, per non disperdersi, si lega agli altri in una sinfonia irresistibile. E poi la luna, madonna la luna, dopo una nevicata è come un posacenere da cui è volato via il contenuto, così vuota, tristissima eppure confortante e invitante.
Sì, i quattro vivevano quella serata come non mai.
La strada per il superstore era parecchia ma loro la percorsero senza fatica, con gli occhi luminosi, le guance arrossate e il naso all’insù. Dissero poche parole; e tanto per tenersi stretti. Si osservavano per tenere impressa l’immagine della loro infanzia, il più a lungo possibile, in futuro. Si sarebbero ricordati di essere stati un gruppo un tempo.
Così persino Mattia era sempre piuttosto affabile, a volte addirittura protettivo, non più dispotico.
“Avete fame?”
“No”
“No”
“Mm, neanche io”
“Io veramente un po’ sì, ho bisogno di … ”
“No, Alito, non c’è tempo per fermarci al Circolo ARCI. Eccheccazzo, mica vorrai baciare anche Babbo Natale?”
“Fanculo no! Ok, Ok, andiamo. Ma promettetemi che ce la faremo anche senza le mentine. Eh, che pensate? Ce la faremo, vero? Sì? Dai, ditemi che sapremo chi è, chi è, chi è-èè-E’E’E’” e terminò la frase canticchiando, per stemperare.
“Sì, ce la faremo. E’ una sensazione. Una promessa”.
Le luci dei magazzini Colpetti si vedevano già dalle curve precedenti. Quando entrarono, una folla di mamme e bambini imbacuccati si accalcava verso il centro del main store: il trono di Babbo. Pareva una sorta di sistema solare aggrovigliato. Un vero formicaio.
Mattia provò a far valere i suoi chili, ma se spingeva via uno, questo magicamente ripiombava di rimbalzo al suo posto perché non aveva spazio per rotolare fuori. Era come lottare contro un budino.
Avrebbero rischiato di fare le ultime ore di fila a vuoto. Decisero di aspettarlo fuori.
Mezz’ora dopo l’orario di chiusura, quando ormai il parcheggio era deserto, uscì dalla porta sul retro Papà Natale. Aveva un’andatura leggermente ciondolante, come chi è stanco ma non pienamente felice.
Lo accerchiarono. Da dietro le sciarpette lo studiavano con aria torva.
Lui prontamente salutò. A suo modo: “Ho-ho-hooo!”.
Nessuna risposta. Il cerchio si strinse e Giulio entrò all’interno. Toccava a lui fare le domande. Era giusto così, con tutto quello che gli aveva combinato il portaregali.
“Come ti chiami? Chi sei?”
“Ho-ho! Che domande, figliolo. Ma dove vivi per non sapere chi sono io? Ho-ho!”
“Le domande le facciamo noi”, intervenne Mattia dalla circonferenza.
“Dove abiti, tu?” proseguì Giulio.
“Beh, cambio casa ogni anno, cercando di restare sempre in posti freddi. Devo conservarmi in forma. Sono approdato in questa zona più di una volta perché si sta davvero bene. E poi, a notte fonda, grazie alla mia slitta, mi muovo. Sono pur sempre il patrono di tutti. Ho il dovere di svolgere al meglio la mia missione ecumenico-universale”.
I piccoli mossero gli occhi verso Mattia. Questi annuì. La risposta poteva andare. Forse non stava raccontando balle.
La voce di Giulio parlò repentina e tiepida: “E porti i regali a tutti-tutti da qui? Ma come fai?”
“Te l’ho detto, la mia slitta fa miracoli. E per non dimenticare alcun nome, i miei assistenti si avvalgono dei migliori database. Riuscivamo anche con le pergamene. Ora è un gioco da ragazzi. Siamo un team consolidato”. Prima Babbo sembrava divertirsi, ora il suo tono si era fatto impastato.
Giulio fece un passo avanti. Si srotolò la sciarpa, lentamente, come fosse un cinturone. I suoi occhi erano gonfi di lacrime.
“Sei un bugiardo” disse. “Sono due Natali che trascuri la mia casa. Non ti ho fatto niente. Non ho fatto niente a nessuno. Sono un bimbo buono. O almeno lo credevo. Perché…” e tirò su con il naso “… perché mi fai questo?”
Santa Claus rimase impietrito. La barba, bianco scuro e ovattata, sussultò impercettibilmente. Fece per parlare, ma ci ripensò. Poi di scatto disse: “Beh, basta! … Qui i giochi li porto e li detto io. Abbiamo scherzato fin troppo” e accennò una partenza nervosa.
A quel punto Mattia si mosse lateralmente, mani in tasca e cappelletto di lana, calatissimo, che sfiorava le ciglia. “Tu da qui non ti muovi”. Era un tono piuttosto freddo, ma lasciava trasparire l’intenzione di difendere l’amico ferito. “Tu non sei chi dici di essere”.
Babbo Natale lo spinse e i due si strattonarono in un accenno di rissa da due soldi.
Gli altri oscillavano le giunture con agitazione.
Dalla fine della stradina si sentì una voce autoritaria: “Che cazzo state facendo laggiù?”
Era uno sbirro in divisa insieme a un suo collega e a un altro compare del genere: la guardia del supermarket.
Arrivarono di corsa e il guardiano, amico di Babbo, provò a tirar via Mattia. Questi gli mise un gomito sul pomo d’Adamo e fece pressione per spingersi in avanti verso l’uomo in rosso. Voleva smascherarlo. I carabinieri lo placcarono ma lui li trascinò con sé. Agguantò Babbo per il velluto sulla spalla. Il vecchio, rosso anche in viso, allungava il collo indietro perché voleva che la sua barba rimanesse intatta. Ma proprio lì arrivò la manona di Mattia. Il ragazzo franò in avanti sotto il peso dei militari che aveva sul groppone. Un capitombolo generale mostrò ai piccoli spettatori una scenetta da cartoon: un ammasso informe di corpi, quasi tutti in sovrappeso, aveva frantumato il sottile strato di neve e ghiaccio che copriva l’asfalto del parcheggio.
L’appuntato si alzò di scatto per spolverare la divisa e la scena cominciò a ricomporsi. Infatti si mise in piedi anche la guardia; e poi il capitano, con la pistola in pugno e l’altra mano che strattonava Mattia, dicendogli: “Alzati, finalmente ti abbiamo trovato”.
E rivolgendosi alla guardia: “Questo ragazzo era un nostro collega. Lavorava sotto copertura, più a sud. Uno davvero in gamba. Dopo aver ammazzato -giustamente- alcuni capi di una cosca locale, pare sia scappato in preda a una crisi esistenziale. Sembra perché pentito delle violenze inflitte ad altri e stanco di stare solo. Ma cazzo! Ma quale solo? Ma che noi non siamo tuoi amici? Quello che hai fatto era per la lotta al crimine! Per l’Arma! Devi esserne fiero. Non opporre resistenza. Non è giusto rifiutare un regalo del generale, se lo ha già ordinato. E’ mancanza di rispetto verso lui e lo Stato, tuo tutore e protettore. Vieni, ritiri la patacca e poi si decide il da farsi. Ti affideranno nuovi casi o, se proprio vuoi, ti daranno una scorta per qualche anno e una nuova identità. Purché scelta da loro!” e gli piegarono di scatto la testa in avanti e le braccia all’indietro. Mentre le manette scattavano, Giulio e gli altri pensarono a quella storia dei calciatori africani che modificano l’età. Ma non si sentirono imbrogliati né traditi. Dinanzi allo sguardo fiero e malinconico di Mattia avvertirono un nodo in gola e, forse per la prima volta, vollero bene a quell’ex-poliziotto che neanche in classe era riuscito a rinunciare alla sua immagine da duro. Aveva mentito restando sincero. I suoi compagni lo apprezzarono.
Poi videro Babbo Natale che si rialzava a fatica da terra, acciaccato eppure dall’aspetto più giovane. C’era qualcosa di strano in lui.
Un metro più in là, infatti, giaceva sotto i piedi di Mattia una barba finta.
Giulio la notò e posò di nuovo lo sguardo su Santa Claus.
Poi si inginocchiò e rimase indeciso se piangere o far lì un po’ di pipì senza vasetto. Invece parlò: “Ma come è possibile?”
Anche i suoi amici storici parevano paralizzati: Marcello a braccia strette per il freddo, Aldo a bocca aperta per rimpiazzare le mentine con qualche boccata gelida.
L’uomo in rosso si toccò il mento e abbassò lo sguardo. “Mi spiace”, disse. “Mi dispiace tanto. La mamma e io lavoriamo e lavoriamo ma raccogliamo poco o niente. Perciò ho scelto questo lavoro stupido. Odio tutte queste manfrine, lo sai. E avrei voluto farti tanti regali. Ma negli ultimi due anni anche mamma ha dovuto cambiare più volte ditta e gestire una casa costa, sì, costa, troppo. Consegnare i regali a tutti e non a te è umiliante, me ne rendo conto solo ora. Ma pensavamo di doverci dedicare di più a garantirti un futuro, una possibilità più avanti, invece che un presente fatto di contentini. Pensavamo l’avessi già capito, fossi diventato grande, ma era forse solo un nostro alibi per non conservare la coscienza sporca. Scusa, figlio mio”.
Il bambino lo guardò a lungo. Lo dicevano in tanti. Il suo scetticismo franò di colpo. Suo padre era Babbo Natale. Semplice e incredibile.
Eppure non capiva neanche allora fino in fondo quel comportamento. Non per questo poteva dirsi immaturo. Infatti, nonostante quel che era successo fosse triste e ridicolo, perdonò subito quel padre frustrato e sincero. E pensò di voler tanto bene anche a sua madre. La immaginò davanti casa ad aspettarli, in pensiero. Il Natale, quello vero, era d’un tratto alle porte.
Il suo babbo promise di lasciare quel lavoro che odiavano. Gli promise che ne avrebbe cercato un altro per occuparsi del presente di suo figlio. E di nient’altro. Perché Natale era QUEL giorno, non gli anni successivi.
Così si incamminarono verso casa, per la prima volta come un padre e un figlio, mentre gli sbirri caricavano Mattia sulla Gazzella.
Che ne sarebbe stato del loro compagno di classe più rappresentativo? Non lo sapevano. Ma salutarono verso il finestrino, dove un ragazzo troppo adulto era solo allora riuscito a maturare, alla rovescia, divertendosi. Infatti le sue frasi tipo “Compagni, fate finta di scherzare insieme ma tra qualche anno sarete i soliti stronzi che tirano acqua solamente al proprio mulino” oppure “voi sarete gli impalatori del corpo già esanime della coscienza collettiva”, beh, quelle frasi schifate avevano lasciato il posto ad un sorriso sincero dietro un vetro. Osservando le loro espressioni capiva di aver trovato degli amici. E fu felice.
Si accorsero che aveva incominciato a nevicare. I fiocchi scendevano lenti e accorti. Il paese sembrò una palla di vetro in cui si era ristabilito l’equilibrio tra focolare domestico e mondo esterno; tra il caminetto centrale come un utero e turbinii di vertigini bianche, ormai lontano ricordo. Il villaggio ora era in pace. Due zampogne suonavano affiatate dietro le colline. Le coccarde indicavano protezione, non più necessaria. Il cielo era attutito e docile. Tutto, anche le canzoncine natalizie suonate e risuonate, era carico di purezza. La ricerca era alle spalle come l’inverno dei cuori. Incantesimo divenuto incanto. C’era gioia d’altri tempi nell’aria. Un paesaggio dell’anima indimenticabile.
Un finale dolce, natalizio in tutto e per tutto.
Finale per convenzione, come sempre accade.
Infatti non si seppe cosa fecero i ragazzi in futuro. Se uno divenne presidente e l’altro dipendente o bombarolo o first lady o fruttivendolo ambulante. Né se rimasero in contatto o morirono a trent’anni o andarono a vivere lontano da lì. Per necessità o per scelta.
Quel che si conobbe è che quell’inverno Giulio, Mattia, Alito e Marcello raggiunsero un sottile equilibrio tra coscienza e giovinezza, maturazione e felicità. Probabilmente non sarebbe più accaduto. A meno che la ricerca del vero Babbo Natale non avesse regalato loro due doni da portar con sé, stranamente abbinati: unione e indipendenza. Forse, dopo tutte quelle mancanze e peripezie, li avrebbero conservati un po’ più a lungo.
In parte quei regali li avevano già accettati. E sì, a soli nove-dieci anni, l’infanzia per loro era proprio finita. Come un’onda di neve che li aveva tenuti a galla e trasportati troppo a lungo, unica e misericordiosa.
Ora loro avevano imparato a coprirsi e galleggiare.
Vi scrivo questa storia perché mi ricorda qualcosa.
Anch’io ora sono vestito in velluto rosso e lanetta bianca. Facevo parte di un gruppo. Ora lavoro da solo, se si eccettuano i commessi-elfi al centro commerciale. Ma quel gruppo, quello di questa storia, non lo dimenticherò mai.
Ve la scrivo inoltre perché anche voi, figli miei, meritate un regalo.
Tutti.
Per due motivi:
1. affinché, dato che non vi trascuro, non vi venga in mente di intraprendere un’Odissea formativa che rischierebbe di farmi perdere il posto di lavoro invernale ai grandi magazzini, che a me piace tantissimo;
2. perché, se anche foste stati cattivi, una storia costa sempre meno del carbone.
E poi, bambini, è Natale, che diamine. Siamo tutti più buoni.
Bentornati a casa.
E auguri.
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