venerdì 17 settembre 2010

AFREAKA

Pandraw mostrò il tesserino dei servizi segreti, che -legalmente modificato- aveva una valenza internazionale, ed entrò nella zona delimitata.
L'auto fucsia lo precedeva. Doveva restarle addosso.
Quel tipo nella macchina non era dei più pericolosi, ma se lo avevano spedito in Sudafrica (del Sud) per seguire quella pista un motivo doveva pur esserci. Ma lui non sapeva quale.
Scordatevi quegli agenti superintuitivi e saputelli. Sono leggende. Mitologia. Come le spie in gessato, con una sigaretta per dito e una biondona per braccio: saranno pur esistite, per carità, ma in un lontano e fumoso (appunto) passato. Non qui. Né tantomeno laggiù.
Pandraw non ne sapeva niente. Di niente. Nessun dossier. Zero.
Gli arrivava solo una comunicazione dai superiori, di media ogni tre ore. E significava quasi sempre prendere l'auto, pedinare e comunicare gli spostamenti.
Non aveva con sè nessun vestito elegante; né bionde a coccolarlo. Niente armi nè seduzione. Né chiaramente armi di seduzione. Solo un giubbotto antiproiettile -insopportabile al caldo- indossato sotto abiti da turista da safari a cui hanno rubato il portafogli fin dall'aeroporto.
Era più innocuo dei grassotteli di mezza età che giravano per strada con vesti arcobaleno e sorrisi appiccicosi per promuovere «la Coppa del mondo del riscatto».
Aveva "addirittura" un permesso per prendere una pistola al negozio d'armi più vicino in caso di necessità (ma la densità di gun stores in Sudafrica non è certo da New Mexico o roba del genere). Che gentilezza.
Si sentiva come un giocatore di football (americano) che si ritrova a dover giocare a lacrosse contro bambini e pensionati di domenica mattina al parco. E' un uomo finito. "Le motivazioni sono tutto", piagnucolerà a fine partita, come scusa per difendersi dalle gentili pacche sulla spalla che gli riserveranno i piccoli avversari. O farà qualche cazzata.
Ma tornando al kit da lavoro, gli appartenevano, infine, 37 anni portati male e un attaccamento al suo Paese di poco superiore alla media (per entrare nei Servizi è necessario, anche se di poco). Da quando era lì, davvero, davvero di poco.
Entrava così quella sera nell'area dello stadio dell'inaugurazione dei Mondiali di calcio e, con tutte quelle vuvuzelas che gli starnazzavano ai lati dei finestrini, pensò che era lì da due mesi ma già ne aveva fin sopra i capelli di quella nazione. Ora tutti così briosi e superficiali. Redenti. Lo depistavano.
Non poteva lavorare come si deve, svolgere la sua missione. Se quello era il Purgatorio, le sue chiappe avrebbero fatto bene a imparare l'Ave Maria (finanche in lingua afrikaans) se non volevano finire arrostite. L'Inferno era alle porte. Non è tanto il caldo che lo annuncia, quanto i colori. Riflettete. Se il Paradiso è la luce più luminosa che ci sia, che annulla ogni differenza e mostra la verità, il suo opposto non è il buio della fossa (no, quello è uno scenario troppo illogico e demodè, medievistico), ma il ritorno di tutti i colori in massa. Il caleidoscaos. E cosa c'è di più colorato delle vesti delle anziane del Sudafrica o dei loro strumenti o di quella dannata bandiera pacchiana usata pure come pannolino per i neonati? Per un tutore della legge nato negli Stati Uniti d'America subito dopo l'era delle contestazioni, che non ha mai visto un vero hippie in patria ma ne conserva l'archetipo (e il timore) dalle profondità dei pregiudizi uterini, un Sudafricano è la Bestia Moderna. Docile, raggiante, ma che ti annulla quando vuole. Che lo vogliate o no, il Diavolo è frikkettone. E all'inferno -ebbene sì- non prevalgono le fiamme, ma il fumo... di migliaia e migliaia di cannoni alla marija (povera Vergine Maria-juana).
Si scrollò di dosso la visione dell'aldilà che lo terrorizzava. Miraggi da inazione. Doveva darsi una svegliata.
Entrò nello stadio seguendo a distanza il tizio e la sua scorta.
Il prato si stava riempiendo di famiglie, gruppetti di ragazzine con corna verdi luminescenti da bancarella o giovanotti con cappelli multicolor e bande di bambini scalzi entrati di soppiatto o lasciati liberi di correre verso i maxischermi luminosi.
Vedendo tutta quella confusione, Pandraw non provò più terrore: l'ansia estatica che l'aveva avvolto pochi minuti prima era confluita dal cuore allo stomaco. E in quel momento il paladino federale desiderò solamente mangiare un cheeseburger multistrato: quella sì che è roba da calca. Terrena, americana. Purtroppo non c'erano (per lo meno nello stadio) locali dal nome invitante "Johannecheesburg".
Ma guardandosi intorno vide alla destra del palco un chioschetto fumante.
Man mano che si avvicinava, le sue occhiate verso la scorta del controllato internazionale si facevano sempre più rare. Nessuno lo avrebbe chiamato. Quel tipo e i suoi scagnozzi erano inoffensivi. Allora inspirò quegli odori inquietanti e speziati e, al suo turno, proruppe, non più timido: "Tre sosaties e tre vetkoek! Per cortesia e in fretta!".
Si mise a mangiare al bancone e iniziò a preferirli alla patriottica carne macinata. Che cosa gli stava accadendo? Era la strada verso la perdizione. O forse i suoni in sottofondo o la luce improvvisa dei fari laser che lo colpiva si armonizzavano bene con i sapori piccanti, ora spalmandoli ora acutizzandoli. In ogni caso quell'altalena da sensi di sensale lo cullava e gli faceva provare una sensazione di pace, risultando alquanto soporifera.
Pandraw rimase per dieci -o forse quindici- minuti con quell'espressione da genuino jamaicano sul volto, quando fu scosso da un trillo improvviso.
Si voltò di scatto e col gomito urtò la ricetrasmittente poggiata sulla mensola. L'aggeggio finì a terra. La cosa peggiore non fu la sua mossa goffa, ma che con la coda dell'occhio vide che durante la caduta lampeggiava il bottone rosso, quello delle emergenze, mai attivo fino a quel momento, e che ora era di nuovo spento: quel dannato trasmettitore spacciato per indistruttibile era davvero fuori uso. Cristo, quella luce non lampeggiava più. Una spia senza spia, assurdo! Proprio ora che gli stavano comunicando direttive urgenti, dopo giorni e giorni di calma piatta interrotta spesso solo da sbalzi termici.
Guardò il gruppo del sospetto e vide che parlottavano. Il cibo delizioso era finito.
Doveva assolutamente tornare a casa a prendere la ricetrasmittente di riserva per capire gli ordini. Ore di fila.
Oppure immaginare il da farsi e procurarsi un revolver. E sparare a quel ladro di polli. E farla finita con la monotonia di una missione dimessa.
Iniziativa da stress. Decise di ammazzarlo.
Ma come? Aveva quasi imparato a rilassarsi in quel buco d'afa.
Ma il dovere è il dovere. Perciò doveva improvvisarsi intelligente, da buona pedina dell'intelligence.
Aveva soldi con sè. Dalle sue parti li chiamano passepartout anche se non conoscono il francese.
Decise di corrompere una delle guardie all'ingresso per farsi dare una pistola.
Si allontanò. E incontrò subito due gorilla della security. Vestiti rosa confetto e giallo granita. Tanto per cambiare.
-Colleghi, sono un agente. Vorrei una pistola- e intanto mostrava loro con una mano il tesserino, con l'altra una mazzetta alta quattro dita. Non aveva tempo da perdere.
-Come capo? Non scherzare. Questa è nazione divenuta nuova. Niente corruzione. Per noi due-
-Ah, già, siete pur sempre due, anche se l'arma me la consegnerà uno solo. Mi pare giusto.- Raddoppiò l'offerta.
I due si guardarono in faccia, sorrisero platealmente.
Poi uno si passò la mano sui capelli cespugliosi, porse il calcio della pistola e prese la grana. Affare fatto.
Gli occhi di Pandraw si illuminarono. E non era né la soddisfazione per l'affare, né un rigurgito del cibo piccante. Finalmente dopo mesi poteva sforacchiare un bastardo di nemico. Istinto da bounty killer che aggredisce routine da centralinista.
Fece sedici passi in avanti e puntò verso il tizio. Tolse con il pollice la sicura. L'indice fa sempre il suo dovere a contatto con il grilletto.
A meno che non ti puntano nello stesso istante una pistola alla tempia.
-Non si fa così, fratello. Non ci hai fatto nemmeno spiegare. La calma è sacrosanta.-
Lo sbirro in rosa della sicurezza gli poteva far saltare la testa da un momento all'altro.
-Non ho detto che tu non può saldare i conti con quel tizio- proseguì. -Anche qui, in questo stadio. In mezzo a donne e bambini in festa. Abbiamo fatto un patto. E' affar tuo. Ma non ora. Ora è momento d'incanto e d'ascolto. Sta per salire sul palco il figlio del grande Ali Farka Touré. Ora suona il Mali, non il male-.
Una scritta azzurra lampeggiò nello schermo alle spalle di un uomo paffuto in tunica elegante e basco rosso e della sua band.
Vieux Farka Touré si poteva leggere.
E poi più in basso la parola Fafa era attorniata da stelline di pixel scintillanti. La riproduzione digitale tentava di rendere il suo valore magico. Empatia, solidarietà, legame: questo significa in maliano. Tutti in Africa lo sanno. Merito degli incantesimi, del rispetto, della musica.
Pandraw abbassò l'arma, imitato dalla Pantera Rosa.
Un assolo di chitarra paralizzante fu seguito da una voce limpida eppur cavernosa. Ispiegabile.
Un'orchestra marziana di rockers da bazaar e percussionisti di ossa preistoriche d'avanguardia prese per mano lo stadio.
Strani esseri per metà animali per metà marionette ballavano in ogni direzione. Ola di breakdance. Luminescenze e tric trac. Baci e sguardi all'orizzonte, dove il passato degli ominidi si incontra col futuro della Terza Età, degli Incontri del Terzo Tipo, del Terzo Mondo.
In mezzo a quelle facce attonite ma espressive Pandraw capì che non avrebbe più trovato il tizio che braccava.
Né più sarebbe tornato in patria.
Perchè quel posto era l'ombelico del mondo.
E quella gente non ostentava superficialità, ma tanto ricercata spensieratezza.
Non era il Paradiso né sarebbe stato l'Inferno.
E' l'Africa, fratello.
Sempre un po' più a Sud dei tuoi pensieri.



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